Tuscia in Pillole. Gli Orti di pace

di Vincenzo Ceniti*

L’impennata sui prezzi degli ortaggi invoglia al recupero anche a Viterbo di un minimo di attività orticola per chi ha la fortuna di possedere piccoli appezzamenti di terreno sia dentro che fuori le mura urbane. I precedenti ci sono e ci riportano agli “Orti di guerra” (o di necessità) di buona memoria ricavati negli anni Quaranta a ridosso di abitazioni in cortili e spiazzi. Quello inquadrato a Viterbo tra via Armando Diaz, via Pietro Vanni, via Lorenzo da Viterbo e via Antonio del Massaro, oggi destinato a giardinetto (peraltro disadorno), ne era un esempio emblematico, ma non il solo.  Ce n’era anche uno in un angolo di piazza Verdi davanti al palazzo Santoro. Senza contare quelli nella valle di Faul, quelli in conventi e monasteri: Santa Rosa, San Paolo ai Cappuccini, Visitazione, San Bernardino, Agostiniani, San Pietro, Paradiso e quelli  che s’aprivano  nel centro storico tra i vari palazzi gentilizi.

Alcune foto d’epoca ci mostrano “Orti di guerra” a Roma presso i Fori Imperiali, le Terme di Caracalla, in piazza di Siena o intorno all’Altare della Patria. Ma anche a Milano in piazza del Duomo, a Firenze sui Lungarni o a Torino al San Valentino. Vi si coltivava di tutto, compresi gli alberi da frrutta, e si allevavano animali da cortile da cucinare nei giorni di festa. Se non ricordo male queste occasionali coltivazioni non  conoscevano ruberie o atti di vandalici, del resto mal conciliabili con le austerità di quegli anni.

In anni più remoti, i nostri antenati viterbesi facevano di quella orticola un’attività più robusta che serviva al sostentamento delle famiglie. Si usciva di buon mattino dalle porte delle mura per accudire ai campi esterni o ad altri lavori agricoli e farne ritorno al tramonto. Al di là della cinta muraria si estendevano gli orti, le vigne, gli oliveti e le coltivazioni di lino e canapa. Nelle stagioni favorevoli se la produzione orticola era in sovrabbondanza si provvedeva alla sua commercializzazione. A Viterbo piazza delle Erbe, piazza Fontana Grande, piazza del Plebiscito e piazza del Gesù sono stati in tempi diversi luoghi di mercati ortofrutticoli gestiti dagli stessi contadini.

Gli orti erano prevalentemente concentrati negli spazi esterni tra porta Romana e porta del Carmine, ben dotati di acqua per i numerosi torrenti  che scendevano dai Cimini: Sonza (Urcionio), Mazzetta, Pila, Elce ecc. I vigneti rappresentavano una delle colture più pregiate ed i vini, in una civiltà povera di bevande alternative, avevano un largo commercio. Le statistiche del tempo parlano di  un consumo pro-capite di un litro al giorno; la bevanda serviva quindi più a dissetare che a produrre “calore” data anche la bassa gradazione alcolica.

In aree più distanti dalle mura si distendevano invece i campi di seminativo a grano, miglio o segale chiazzati qua e là da alberi di olivo la cui diffusione tuttavia non era intensa come oggi. Dai paesi limitrofi, gravitanti nel versante dei Cimini, venivano abbondanti quantitativi di castagne usate per la produzione di farina, provvidenziale alimento in alternativa alle scorte di granaglie.

Si ha notizia che le vigne erano per lo più localizzate nel versante sud, in contrade le Farine e Ciriciaccolo. Pene severe  per chi danneggiava i vigneti. Si arrivava anche all’amputazione di ambo le mani. Nella piana termale, ad ovest della città, si registrava invece una fiorente coltivazione di lino e canapa. A primavera i campi erano inondati dei fiori azzurri degli steli del lino (come annota Pio II nei suoi Commentari) che garantivano al paesaggio una gradevole coloritura. Nel periodo del raccolto (luglio-agosto) si scorgevano nella zona lunghe teorie di donne (le cosiddette “pettatrici”) che agli ordini del “pisciarolo” mettevano a macerare le piante nelle vasche intorno alle sorgenti del Bulicame e del Bagnaccio.

Spettava, poi agli “scotolatori” (la scotola era un coltellaccio di grandi dimensioni) il delicato compito di separare il fusto dall’anima fibrosa delle piante. Il lavoro di questi abilissimi artigiani era talmente prezioso ed utile (a loro Viterbo ha addirittura dedicato una piazza nel quartiere storico di Pianoscarano) che le autorità del tempo autorizzavano la lavorazione notturna anche all’interno della città, normalmente vietata per evitare gli incendi.

Il lino di Viterbo era di altissima qualità, al pari di quello pregiatissimo di Napoli, ed alimentava un commercio molto redditizio. Venivano da ogni parte d’Italia per acquistarne cospicui quantitativi. La coltivazione della canapa è stata attiva a Viterbo fino agli anni Cinquanta-Sessanta del secolo scorso prima di essere soppiantata da prodotti sintetici. La presenza delle “pettatrici” deve aver incuriosito anche Dante che ne parla nel XIV Canto dell’Inferno.

Oggi in tempi di pace (?) l’orto sembra tornato di moda soprattutto per l’emozione di veder crescere le piante e il piacere innato di poter dire agli amici “senti quanto è buono, l’ho prodotto io”. E’ una tendenza da incoraggiare.  Intanto perché si ritorna a presidiare il territorio con tutte le positività che ne conseguono. C’è poi una componente educativa che non va trascurata. Accudire alle preparazione del terreno, alla semina secondo le lune, all’irrigazione, alla potatura, alla raccolta ecc. significa riappropriarsi dell’eterno ciclo della vita vegetale e  di approfondire la conoscenza della natura, condizioni necessarie per il rispetto di uomini e cose.

Bravi quei Comuni che nei loro piani urbanistici hanno delimitato aree pubbliche destinate alle coltivazioni orticole o che facilitano le richieste in tale senso. Sarebbe altrettanto utile estendere questo amore tra i bambini delle elementari e favorire, in collaborazione con la Coldiretti, il gusto per la creazione di un orto in piccoli spazi all’interno della città e nelle periferie,  al posto magari di  giardinetti o pratini all’inglese. Accanto a cespugli di rose e ortensie, non ci starebbe bene anche una fila di piante di zucchine, peperoni o melanzane?  

Nelle foto, in alto un orto di guerra a Roma nei pressi di piazza Venezia e come cover un orto nei dintorni di Viterbo con una bambina “contadina”.

 

L’autore*

Console di Viterbo del Touring Club Italiano. Direttore per oltre trent’anni dell’Ente Provinciale per il Turismo di Viterbo (poi Apt). È autore di varie monografie sul turismo e di articoli per riviste e quotidiani. Collabora con organismi e associazioni per iniziative promo-culturali. Un grande conoscitore della Tuscia.

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