Vincenzo Cianchella, ovvero lo Sherlock Holmes della Tuscia

di Arnaldo Sassi

Vincenzo Cianchella-nel laboratorio dell'Univesità della Tuscia

“Elementare, Watson!”. La frase, come tutti sanno, è del celeberrimo investigatore Sherlock Holmes, inventato verso la fine del 1800 dallo scrittore scozzese Arthur Conan Doyle. Ma in pochi sono a conoscenza che la Tuscia ha avuto per svariati anni uno Sherlock Holmes “de noantri”, con due passioni innate: la prima, per la sua terra natìa, che lo ha indotto anche a fare scelte difficili per la sua carriera; la seconda, il mondo dell’investigazione, al quale ha sempre dedicato passione e cuore, e che ancora oggi continua a coltivare, seppur con un diverso ruolo.

Una corporatura ancora giovanile, nonostante i suoi 71 anni, un volto che sprizza subito empatia, un modo di fare estremamente pragmatico: è Vincenzo Cianchella, attualmente coordinatore tecnico scientifico del laboratorio di criminologia criminalistica e scienza dell’investigazione all’Università della Tuscia, dopo essere stato per sette anni docente di tecnica e di attività di polizia giudiziaria. Ma ai più Cianchella è noto per essere stato, dal 1987 al 2012, il fulcro della questura di Viterbo. Prima come dirigente della Squadra Mobile, poi – dopo vari passaggi – come vicario del questore.

Quando decise di entrare in Polizia? E perché?

“Era il 1972. Avevo diciannove anni. Vidi alcuni manifesti che reclamizzavano un bando per la neonata Accademia di Polizia. Rimasi affascinato da quell’immagine del cadetto con lo spadino. E così decisi di fare la domanda. Vinsi il concorso e, a ottobre, entrai in Accademia, a Roma. Eravamo una sessantina. Ne uscimmo in 35”.

Quanto durò il corso?

“Quattro anni. I primi due da cadetto, gli altri da sottotenente. A 25 anni ero già capitano”.

La prima sede?

“A Firenze, nel reparto Celere. Ci rimasi cinque anni”.

Ma Viterbo le è sempre rimasta nel cuore…

“Sì. E riuscii a tornarci nel 1987. Per me fu un sogno realizzato, perché mi ricongiungevo alla mia famiglia e a tutte le persone che consideravo vicine. Fu una soddisfazione anche dal punto di vista professionale, perché potevo lavorare in una città che conoscevo bene. La mia città”.

Con quali mansioni?

“Per tre mesi diressi la Squadra Volante, poi il questore mi volle alla Squadra Mobile, dove sono rimasto fino al 2000, quando sono stato promosso primo dirigente e assegnato a Roma, quale dirigente di una Divisione della Direzione Investigativa Antimafia. Avevo trovato un alloggio di fortuna, ma appena potevo tornavo a Viterbo. E dopo due anni sono riuscito a rientrare nel mio ‘paesello’, prima come dirigente della Divisione Anticrimine e poi come Vicario del questore, fino alla pensione”.

A proposito della carica di questore…

“Sì, ci potevo diventare. Ma questo avrebbe significato allontanarsi ancora una volta da Viterbo. Ho preferito fare una scelta di vita. Io sono innamorato di Viterbo e volevo stare vicino alla mia famiglia”.

Lei è stato a capo della Squadra Mobile viterbese per ben 13 anni. Quali sono stati i casi che l’hanno impegnata di più?

“Beh, intanto c’è da dire che Tangentopoli è cominciata da Viterbo. Perché lo scandalo della discarica di Tarquinia, in cui erano coinvolti diversi politici, avvenne tre mesi prima dell’arresto di Mario Chiesa a Milano. E quella fu un’indagine molto delicata, perché all’epoca la politica era dominante.  Ma l’operazione più eclatante fu certamente l’arresto del mafioso Gaspare Mutolo, che aveva una villetta a Tarquinia, pur essendo residente a Gavorrano, in provincia di Grosseto. Lo prendemmo a Montalto di Castro, mentre stava nascondendo una partita di droga, dopo giorni e giorni di appostamenti in un canalone d’irrigazione artificiale. Ricordo con precisione che era il Ferragosto del 1991. Alcuni mesi dopo il suo arresto diventò collaboratore di giustizia e fu ascoltato più volte dal giudice Falcone. Poi, ricordo la liberazione dell’industriale del caffè Dante Belardinelli, unitamente alla Squadra Mobile di Roma, avvenuta nell’agosto 1989 in un bosco tra Grosseto e Viterbo. Il primo ad arrivare nella tenda in cui l’industriale era tenuto prigioniero fu un agente viterbese. Lui da ragazzo faceva il boscaiolo e riuscì a individuare i sentieri che portavano al nascondiglio. L’uomo, non appena lo vide, lo abbracciò e dall’emozione se la fece addosso. Ancora, il caso di Augusto De Megni, che quando fu rapito aveva appena 10 anni. Non partecipammo direttamente alle operazioni di liberazione, ma facemmo indagini di supporto che si rivelarono molto importanti. Infine la lotta al racket dei locali notturni, nel quale s’era infiltrata anche la banda della Magliana e una costola della ‘Ndrangheta calabrese. Ricordo l’incendio del Maeba, locale sulla Cassia Sud, e il grande lavoro fatto per poter sgominare l’organizzazione”.

Passiamo ad altro. Cosa ci vuole per diventare un buon investigatore?

“Una sana e lucida follia. Ma soprattutto, tanta, tanta passione. E non guardare mai l’orologio, perché se vuoi lavorare 8-14 hai sbagliato mestiere. Se tutta la squadra lavora con questi criteri, i risultati prima o poi arrivano. Scherzi a parte, la prima cosa che serve è una conoscenza approfondita delle tematiche giuridiche. Poi bisogna avere anche capacità specifiche. Negli interrogatori, ad esempio, non puoi fare il duro, ma devi cercare di capire il soggetto, entrare in sintonia con lui per cercare di comprendere quali sono i suoi punti deboli. E alla fine affondare su eventuali situazioni che nel frattempo si sono create”.

Oggi invece ha cambiato ruolo, all’interno dell’Università della Tuscia…

“Sì. Fino all’anno accademico 2021/022 sono stato docente di Tecniche e Attività di Pg nel corso di laurea in Scienze politiche e delle Relazioni internazionali, ‘curriculum investigazioni e sicurezza’. Poi, su input del rettore Stefano Ubertini e di Tiziana Laureti, direttrice del dipartimento Deim, è stato istituito due anni fa il laboratorio di Criminologia, Criminalistica e Scienze delle Investigazioni, di cui sono diventato coordinatore tecnico scientifico. Un laboratorio a supporto degli insegnamenti caratterizzanti il curriculum di investigazione e sicurezza (criminologia, medicina legale, genetica forense, balistica forense, tecniche e attività di Pg)”. Un organismo che, oltre a effettuare attività di ricerca, organizza eventi, seminari ed esercitazioni pratiche”.

In pratica, cosa si fa e a che cosa serve?

“E’ un contenitore che fa anche acquistare crediti formativi a chi lo frequenta, ma soprattutto insegna agli studenti l’arte dell’investigazione tradizionale e tecnico-scientific. Si fanno dimostrazioni sul campo, mettendo dei manichini. E ai ragazzi insegniamo come si arriva sul luogo dove è stato commesso un crimine, quello che si deve fare e soprattutto ciò che non si deve fare per non inquinare la scena. Tra l’altro, a breve acquisteremo un drone, da utilizzare nella ricostruzione di un sopralluogo giudiziario. Abbiamo appena completato due cicli di seminari: uno di criminologia e l’altro di balistica forense, ovviamente frequentati da coloro che sperano di entrare in Polizia o nei Carabinieri. Ma possono servire anche a chi intende fare l’avvocato o lavorare nel campo dell’investigazione privata e della sicurezza”.

Insomma, danno una preparazione specifica…

“Sì, perché oggi la scienza criminalistica è entrata prepotentemente nelle indagini tradizionali, che erano fatte per lo più di intercettazioni, perquisizioni, appostamenti e pedinamenti. Ad esempio, oggi il Dna è diventata la prova regina del dibattimento. E sul luogo del delitto è sempre molto probabile trovare degli elementi di prova in tal senso. L’importante è non inquinare il luogo del delitto, perché il reo lascerà sempre qualcosa sul posto o sulla vittima. Con un capello a bulbo vivo si può estrarre il Dna e trovare il profilo genetico. Poi non è detto che sia proprio quello dell’assassino, ma diventa una traccia su cui lavorare. Le successive indagini stabiliranno il resto. La stessa cosa vale per la goccia di sangue”.

Una vera e propria rivoluzione…

“Già. Basti pensare che su otto miliardi di persone, ognuno ha un profilo genetico diverso. Lo stesso profilo lo hanno solo i gemelli monozigoti. Lo stesso discorso vale per le impronte digitali. Nella banca dati del Ministero degli Interni ce ne sono circa 18 milioni, che si possono confrontare in caso di necessità”.

Cos’altro c’è ancora?

“La balistica forense consente, ad esempio, di risalire da un proiettile o da un bossolo alla pistola che ha sparato, perché le striature sono diverse da pistola a pistola. Ovviamente bisogna prima avere in mano la pistola sospetta…”.

E poi?

“E poi c’è il troyan, che ha aperto un mondo tutto nuovo. Anche se sul suo utilizzo ci sono molte polemiche. Inserito sullo smartphone di un sospettato è in grado di rilevare di tutto e di più”.

Insomma, il progresso non si ferma…

“Già. E questa legge vale anche per il mondo dell’investigazione, anche se restano sempre valide le regole delle indagini tradizionali. Insomma, serve un 50 e 50, perché poi il bravo detective deve avere i suoi confidenti, la capacità di entrare nel mondo sociale, fare public relations e un po’ anche lo psicologo”.

Per concludere: il futuro di Vincenzo Cianchella?

“Continuare questa mia attività con la passione di sempre. Perché la passione e il cuore sono il segreto di ogni successo”.

La ricostruzione di una scena del crimine
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Il materiale occorrente per i rilievi
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Gli strumenti della Polizia Scientific
Gli strumenti della Polizia Scientifica

 

Nella foto cover, Vincenzo Cianchella nel laboratorio dell’Univesità della Tuscia

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