Tuscia in pillole. Piscinari e Scotolatori

di Vincenzo Ceniti*

vecchio telaio viterbese per la filatura della canapa

Non solo città di papi, ma anche di  canapa e  lino. Ce lo ricorda Alfio Cortonesi, già docente all’Unitus, che annota come Viterbo tra il Mille e il 1500, documenti alla mano, produceva fibre tessili di buona fattura, utili sia al fabbisogno familiare che alla vendita nei mercati limitrofi. Avrebbe conteso addirittura a Napoli il titolo di campione d’Italia per la qualità  del lino. Quando era in fioritura – scrive Pio II Piccolomini nei suoi Commentari – il Piano del Bagni, alle  porte della città, si trasformava in una tappeto azzurro.

Prima dell’ultima guerra, intorno al  1940, la coltivazione di lino e canapa, che si alternava a quella del grano in un razionale sovescio, era molto diffusa in tutta la Tuscia Viterbese come del resto in molte altre regioni d’Italia.  Un mare di steli che a primavera mutava i colori del  paesaggio, influenzando anche stili di vita, rapporti, sociali. Perfino familiari, considerata la folta partecipazione di manodopera femminile.

Oggi di tutto questo patrimonio agroculturale non è rimasto più nulla, ma non è escluso che non si possa riparlarne, in una visione magari di agricoltura sostenibile e  di transizione  ecologica.  La lettura di alcune gabelle comunali del centro Italia,  in particolare Siena, Roma e Perugia,  ci informa che l’export era florido, tanto che il comune di Viterbo, come si legge negli statuti comunali a partire dal XIII sec., controllava la semina, il raccolto e soprattutto la macerazione nelle vasche adiacenti al Bulicame.

Per la macerazione, l’addetto era il “piscinario” una sorta di guardiano  delle vasche che dettava i tempi per l’ammollo nelle pozze ipertermali della zona. Con alcuni sodali sorvegliava tutta l’area di Pian dei Bagni, piuttosto affollata durante il raccolto e la lavorazione. Lo scenario non sfuggì a Dante quando probabilmente lo vide o ne sentì parlare nel Trecento nel suo viaggio a Roma, tanto da servirsene per una doppia terzina del XIV Canto dell’Inferno. A margine dei ruscelli pietrosi sostavano le “pettatrici” a macerare la canapa o le “peccatrici” relegate quaggiù dal comune? . .

Canapa extrabianca e lino di qualità. Merito della terra asciutta e grassa di molte  piane della Tuscia Viterbese,  ma soprattutto delle acque sulfuree del Bulicame che scorrevano  entro una trama di  rivoli e laghetti. Ingredienti naturali ed esclusivi per la macerazione degli steli che venivano poi fatti  asciugare al sole. A volte a fasci di forma conica come le tende da campo. Si procedeva poi  alla battitura con mazze e bastoni  per una prima e sommaria separazione della fibra dalle cortecce..         .

Aggiungiamoci pure  l’abilità di coloro che a colpi di coltellacci di legno (le viterbesi  “scotole”), eliminavano le scorse legnose prima della “pettinatura”, dando allo stelo la giusta curvatura. Lavoro tradizionale quello dello “scotolatore” il cui termine è entrato nelle vene di Viterbo, nel dialetto,  nel carattere dei suoi abitanti  e nel vissuto locale, tanto che la comunità ha loro dedicato  una via nel quartiere di Pianoscarano. Categoria privilegiata e  affidabile se è vero che agli “scotolatori”  era eccezionalmente consentito  di lavorare anche di notte, con tutti i rischi del caso (in quei tempi non erano pochi).

Infine le  “pettinatrici”, parrucchiere ante litteram, con mani più callose e meno raffinate delle acconciatrici di oggi, ma altrettanto abili a dipanare le matasse fibrose  Buona presenza dunque di   manodopera femminile, una rarità per quei tempi in cui la donna non contava molto, relegata com’era a cucinare e fare figli.  La prospettiva delle più giovani era di guadagnare per farsi la dote.  Questo flash di rude gentilezza lo ritroviamo nel volto sognato della Bella Galiana, fanciulla viterbese di rara fierezza medioevale.

Una preziosa campionatura degli attrezzi usati, compresi un telaio ed alcune foto bianco-nero degli anni Trenta-Quaranta , é  provvidenzialmente custodita a Viterbo in un antro del quartiere  di Pianoscarano accanto ad un antico frantoio. La troviamo anche nel Museo della Civiltà Contadina e delle Tradizioni Popolari di Canepina, lungo la strada Cimina.  A proposito di Canepina, va ricordato che un panno (rigorosamente di canapa), entra ancora oggi nel processo di scolatura dei tradizionali “maccaroni” (il cosiddetto “fieno”)  una specialità del posto.

Va aggiunto  che nel Quattrocento, ma non solo, molte famiglie viterbesi si sostenevano con la produzione di lino (olio per cucinare, per le lampade e i cataplasmi) e di canapa con cui si confezionavano oggetti di uso comune, cordami per vari usi e  i fiscoli per la molitura dell’olio d’oliva.

Però quanto fetore. Canapa e lino macerati nell’acqua erano così  maleodoranti che un pontefice, al tempo della sede papale a Viterbo, pretendeva che tutta la lavorazione delle fibre avvenisse fuori dalle mura cittadine,  al Piano dei Bagni. che nei mesi di lavorazione del raccolto, da giugno ad agosto, complice anche il percorso della Francigena, si trasformava in una borgata, con tanto di capanni e osterie, frequentata da lavoratori, mendicanti, ladruncoli, pellegrini, prostitute, mercanti e imbroglioni.

 

 

L’autore*

ceniti

Console di Viterbo del Touring Club Italiano. Direttore per oltre trent’anni dell’Ente Provinciale per il Turismo di Viterbo (poi Apt). È autore di varie monografie sul turismo e di articoli per riviste e quotidiani. Collabora con organismi e associazioni per iniziative promo-culturali. Un grande conoscitore della Tuscia.

 

COMMENTA SU FACEBOOK

CONDIVIDI