Rottezzia a Soriano, cuciniamo le ricette del libro della nonna

Francesca Pontani

«How amazing!»
E’ tutto meravigliosamente incredibile per loro. Loro sono i turisti-viaggiatori che dagli Stati Uniti e dall’Europa arrivano a Soriano nel Cimino. I vicoli, i palazzi antichi e poi entrare qui dentro, in un luogo dove c’è tanta storia e, adesso, anche la storia di una famiglia innamorata del suo paese, Soriano nel Cimino.
Per gli stranieri tutto è meraviglioso: e perché non lo è più per noi? Perché non puntare su un turismo e una ristorazione di tipo tradizionale e casalinga? Perché la genuinità, la semplicità e la specificità tipica di un territorio non sono ancora considerati l’orgoglio e il vanto di chi offre servizi e accoglienza turistica? Raccontare un territorio attraverso i prodotti tipici del posto e con le ricette che davvero si facevano in casa da sempre è il modo più semplice e poetico per accogliere e far amare un luogo.
Ricette semplici ma che dentro hanno ricordi mentre li mangi: una fetta di pane, vino rosso e ricoperta di zucchero … niente di più semplice e “banale” per chi è della Tuscia, per esempio. Ma a chi sa apprezzare fa tornare in mente, mangiandola, tanti ricordi come anche a me quando, da piccola, mia nonna me la preparava per fare merenda. E agli stranieri entrare dentro una tradizione fatta anche di ricordi piace, piace molto questo modo di vivere un territorio e di raccontarlo valorizzandolo.
E qui a Rottezzia si fa tutto questo. Ragazzi giovani che con orgoglio vogliono far conoscere il loro mondo. Entro per la prima volta e mi faccio raccontare da Emanuele, Valentina e Giada la loro storia: «Chi non fa niente non sbaglia. Ammetti l’errore e vai avanti. Il nostro orgoglio è che anche grazie a noi vengono persone a visitare il paese» (Giada).
Siamo seduti al tavolo alcuni metri sotto terra, in un ambiente architettonico molto suggestivo, dentro le gallerie che si trovano sotto la piazza principale di Soriano, “formate” nel corso dei secoli in quanto cava di peperino per la costruzione del Duomo. Incise sulle pareti ci sono parole antiche, il simbolo del Santo Spirito, croci, numeri, formule scritte antiche e misteriose…

Partiamo dalle presentazioni …
Siamo tre fratelli: Giada, Emanuele e Nicoletta, un’attività a gestione familiare, insieme ai nostri genitori, a Valentina, la moglie di Emanuele, e Francesco, il marito di Giada. L’idea è nata dal babbo Egisto che passava di qui e si ricordava di questo locale, del successo che ha avuto e della bellezza del posto. In cucina c’è mamma Loredana e Valentina.


Il nome Rottezzia?

Viene da “rotte” che sta per “grotta” in dialetto sorianese, e “rottezzia” significa “insieme di più grotte”.

Qual è il filon rouge che tiene insieme il locale, Soriano e la Tuscia?
Famiglia e tipicità: il locale ha le sue fattezze nella storia della Tuscia. E’ la tradizione dei piatti, è una famiglia che ci lavora. Tu vai in giro e ti trovi questi ristoranti gestiti da manager e non sai chi è che cucina, chi ha pensato quel piatto e perché: tutto è anonimo. Qui invece tu sai chi cucina, chi ti fa il piatto e chi ti gestisce tutto. Noi siamo questo, e vogliamo trasmettere chi siamo con naturalezza (Giada).

Avete puntato sulla tipicità, sul recupero delle tradizioni sorianesi? 
Sì. Per esempio l’acquacotta, una zuppa antica, semplice e allo stesso tempo un piatto completo. E poi le zuppe. Noi andavamo in giro per ristoranti e nel menu era quasi impossibile trovare una zuppa. Quindi una delle idee principali dalle quali siamo partiti è stata questa, proporre zuppe tradizionali: un piatto semplice che racconta tanto in termini di sapori e di territorio. La pasta fatta in casa, le birre artigianali, lo stufato di manzo con le castagne che a Soriano sono importanti. E poi le sutrine.

Cosa sono le sutrine?
Le sutrine sono una sorta di crepes, semplici di acqua e farina, arrotolate e all’interno il pecorino. Ma c’è dell’altro:“Gnocchi ch’ifferro” in dialetto. Arrotolati con una sorta di ferro. Sono gnocchi di acqua e farina e arrotolati con un ferretto. Io sto imparando dalla nonna, con un ferretto da principianti (Emanuele).

La figura della nonna menzionata che ruolo ha avuto nella vostra scelta?
La nonna che è di Soriano ci ha tramandato il libro della sua mamma con le ricette. Quindi le ricette sono fedeli il più possibili alla nostra bisnonna Celeste.

La scelta sui prodotti ricade in quelli a km 0?
Sì. Comunque come filosofia familiare non ci piace chiamarla a km 0, perché per legge è entro i 99 km dalla posizione. E invece per noi è un vanto stare entro i 20/25 km: vino, olio, carni, verdure. Prodotti locali dei quali conosci tutto: il terreno, l’aria, l’ambiente, chi ci lavora, e queste sono grandi garanzie.


Cosa via ha spinto a privilegiare i valori fondanti della vostra storia e di quella del vostro paese?
Abbiamo inserito e fuso il nostro vissuto con la nostra attività. Perché aprire questo locale è il contributo che noi diamo al nostro paese. Per tenere vivo il paese di Soriano, un luogo bellissimo e dalle grandi potenzialità (Giada).

Molti giovani pensano che il successo lavorativo sia fuori il proprio piccolo paese. Invece oggi è vincente sviluppare qualcosa nel luogo dove si è nati. Fuori c’è una globalizzazione che schiaccia tutto. Invece il segreto è la tipicità: Soriano e le sue caratteristiche. Voi con la vostra famiglia, nati e cresciuti con i vostri nonni: è questo che fa la differenza.
«Sì vero. La cucina e il cibo sono il punto di riferimento per raccontare e far conoscere il nostro territorio. I piatti raccontano. E raccontano soprattutto la stagionalità, i cambiamenti naturali anche del cibo attraverso le stagioni» (Valentina).

Le enormi gallerie di cui si compone ci consegnano la  storia del locale,  a cosa servivano?
Queste gallerie nascono come cave di peperino per la costruzione del Duomo di Soriano, che ha avuto 3 fasi di costruzione nel corso di 1000 anni. Poi le gallerie sono state utilizzate per le botti del vino, data la temperatura costante.

Sono state usate anche come rifugio in tempo di guerrà?

Sì, da non dimenticare: il bombardamento del 5 giugno 1944. Per due-tre notti i sorianesi sono stati qui dentro. Perché la paura era tanta. In piazza ci sono stati danni e tantissimi morti (più di 200). E’ capitato qui una domenica a pranzo un signore, entrato per far vedere al nipote dove si era nascosto da bambino, era entrato che era mezzogiorno, quindi nel momento in cui è entrato qua dentro ha suonato la sirena di mezzogiorno di Soriano che era quella dei bombardamenti, e questo signore per un attimo si è trovato spaesato e di colpo è tornato a quei momenti. E si è commosso.

Tornando all’oggi come si vive a Soriano rinomato borgo della Tuscia?
Tranquilli, non è caotico, ritmo sereno. Tranne che per la Sagra della Castagna in cui Soriano diventa un altro paese. Una grande festa, divisa in tre settimane. La prima settimana c’è l’apertura dei rioni, la benedizione e alcuni spettacoli. C’è l’esibizione del rione San Giorgio che racconta la storia di San Giorgio che ha ucciso il drago e salvato la principessa. Mangiafuoco, spadaccini, sbandieratori, e poi c’è Rione Papacqua con i musici. E c’è la storia della strega: si racconta che a Soriano c’è stata l’inquisizione di questa strega, Giovanna Debaldi. Bruciata. E’ una festa di tipo storico-medievale e rievocativa.

Le origini delle ricette sorianesi affondano le radici nel medioevo? Oppure sono etrusche?
Come abbinamenti qualche cosa c’è del periodo etrusco, tipo il maiale con le mele. Di medievale zuppa di ceci e castagne col rosmarino e poi le spezie come pepe, salvia, timo, chiodi di garofano, ginepro.

Voi vi sentite etruschi?
Babbo è etrusco. Lui lo dice sempre …

Foto a cura di Giuliana Zanni

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