Pubblico è bello: la rivoluzione di Chiara Cordelli

di Arnaldo Sassi

Chiara Cordelli

Sicuramente a Viterbo e dintorni è molto più famoso suo padre Franco. Eccellente pediatra per una vita, ha fatto crescere mezza Viterbo. E oggi, splendido novantenne, si diletta ancora con successo al suo hobby preferito: quello di disegnare vignette, tanto da far invidia a un certo Forattini (nella mostra “Fakes”, tuttora aperta al centro culturale valle di Faul, c’è infatti un’ala interamente dedicata ai suoi disegni).

Ma lei, Chiara Cordelli, figlia di tanto padre, ha voluto percorrere una strada completamente diversa, dedicandosi alla filosofia (oggi è professoressa associata presso il Dipartimento di Scienze politiche dell’Università di Chicago) ed è diventata famosa nel resto del mondo, soprattutto negli Stati Uniti (dove vive), grazie ai suoi studi e soprattutto alla pubblicazione del suo libro “Privatocrazia”. Un vero pugno nello stomaco, in un’epoca in cui le cosiddette privatizzazioni degli enti pubblici sembrano essere l’unica via da percorrere. Ma il volume in versione inglese, che si può definire sicuramente rivoluzionario, ha ricevuto nel 2021 il premio come miglior primo libro di filosofia politica dall’European Consortium for Political Research.

“Ho lasciato Viterbo – esordisce – dopo aver preso la maturità al liceo classico Buratti per iniziare l’università alla Sapienza a Roma. Ho girato molto, tra Barcellona, Bruxelles, Londra, Washington (dove ho conosciuto mio marito), per approdare definitivamente a Chicago”.

Parliamo del suo libro: una critica molto pesante a quello che oggi sembra essere il pensiero dominante: privatizzare il più possibile.

“Quando penso a cosa mi ha spinto a scrivere ‘Privatocrazia’, oltre al fatto che le privatizzazioni hanno un impatto significativo sulle nostre istituzioni democratiche, la prima cosa che mi viene in mente sono i 18 anni della mia vita passati all’interno della scuola pubblica in Italia. A differenza dei miei colleghi americani, molti dei quali si sono formati in scuole private di élite, anche molto costose, sono orgogliosa di aver ricevuto un’istruzione egualmente ottima, se non superiore, che mi ha permesso di fare quello che fanno loro, senza essermi dovuta indebitare. Non avrei potuto fare il lavoro che faccio senza l’esempio e l’ispirazione di alcune delle mie insegnanti del Buratti. Per me il declino della scuola pubblica in Italia, così come quello della sanità, entrambi conseguenze di ripetuti tagli alla spesa pubblica, non costituiscono solamente un interesse di tipo intellettuale, bensì sono fatti che mi toccano profondamente al livello personale. Li vivo, in parte, come un tradimento”.

Si spieghi meglio…

“Questo libro nasce da una riflessione su una trasformazione istituzionale che è in corso dagli anni ‘70 in molte democrazie liberali. Ossia l’incalzante privatizzazione di funzioni pubbliche da parte dei governi, dai trasporti alla gestione dei beni culturali, dall’educazione alla sanità, fino ad arrivare, in nazioni come gli Stati Uniti, l’Australia e l’Inghilterra, alla privatizzazione della gestione delle prigioni, del combattimento di conflitti militari e della gestione di programmi di previdenza pubblica”.

Beh, pure in Italia…

“Certo. In regioni come la Lombardia, poco meno del 50 per cento delle istituzioni sanitarie si trova oggi in mano a privati. La Regione rimborsa i servizi ma sono i privati che li erogano e che spesso decidono quali servizi fornire. La pubblica amministrazione eroga una percentuale notevole di appalti e contratti a privati per lo svolgimento di funzioni che vanno dalla raccolta dei rifiuti alla gestione delle strutture informatiche, dai servizi di sicurezza al trasporto, dagli asili nido all’assistenza agli anziani. In teoria, le funzioni delegate ai privati dovrebbero essere di carattere puramente ausiliario. Ma così non è”.

Come e quando nasce questo fenomeno?

“La spinta a privatizzare è emersa in risposta a una crisi di legittimità che ha colpito molti stati moderni a seguito di un’espansione repentina del loro apparato burocratico-amministrativo subito dopo la seconda guerra mondiale. C’è stato un calo netto di fiducia da parte dei cittadini nella pubblica amministrazione, accusata di essere eccessivamente ingombrante, inutilmente cavillosa ed inefficiente. La risposta è stata una progressiva introduzione di strategie di mercato nella gestione degli affari pubblici, viste come l’unica via d’uscita. La privatizzazione di funzioni pubbliche non avrebbe però potuto raggiungere queste dimensioni senza il supporto di quell’ideologia economica e politica che è divenuta dominante al livello globale a partire dagli anni ‘80: il neoliberismo”.

Cioè?

“Privatizzare ha permesso alle élite politiche di continuare a garantire servizi, così da soddisfare le preferenze del pubblico, dando però allo stesso tempo l’illusione che è il libero mercato, invece che lo Stato, a provvedere. Usare il privato al posto del pubblico ha anche fornito a tali élite una strategia per rendere effettiva l’implementazione di un regime fiscale austero, senza dover però chiedere sacrifici eccessivi ai cittadini. La speranza era che grazie alla competizione di mercato, il privato potesse fare ciò che fa il pubblico, ma farlo meglio e a costi molto più ridotti. In verità, spesso la privatizzazione non significa risparmio poiché, quando si calcolano i costi di amministrazione e il monitoraggio degli appalti e dei contratti, i costi spesso superano i benefici iniziali”.

Lei parla anche di conseguenze dal punto di vista democratico…

“Certo. Perché delegando ai privati forme significative di discrezionalità, si finisce per compromettere tre condizioni irrinunciabili: l’autogoverno democratico, la rappresentanza e l’indipendenza reciproca”.

Ossia?

“Prendiamo, come esempio, la questione dell’autogoverno democratico. L’abilità di un popolo di autogovernarsi democraticamente dipende dalla sua capacità di mantenere il controllo direttivo sull’amministrazione della cosa pubblica. Ora, la privatizzazione inficia tale capacità di controllo, perché più i governi esternalizzano, meno essi diventano capaci di controllare l’operato dei privati”.

Non mi sembra poco…

“Non solo. C’è anche un problema di crescente apatia civica. La privatizzazione mina la capacità di vigilanza civica, non solo perché rende gli abusi di potere molto più difficili da smascherare, ma anche perché nasconde il volto del governo, occludendo il suo ruolo dietro una miriade di attori privati attraverso i quali il governo viene a fornire beni e servizi ai suoi cittadini”.

C’è altro?

“Sì. L’esternalizzazione aumenta il rischio di corruzione. Nel caso della Lombardia, il processo di privatizzazione fu avviato da Formigoni, il quale, non a caso, fu poi condannato per aver accettato tangenti, sotto forma di costosi regali, da fornitori privati di servizi. Ma anche quando non sfocia in vera e propria corruzione, la privatizzazione spesso crea disuguaglianze problematiche nella distribuzione del potere decisionale e politico all’interno di una democrazia”.

In conclusione?

“I processi di privatizzazione spesso diventano incompatibili con le vere basi di un sistema democratico. Poiché abbiamo anche visto che uno Stato democraticamente costituito è essenziale per eliminare il problema del dominio, si può concludere che privatizzandosi lo Stato abdica la sua responsabilità primaria, che è quella di assicurare condizioni di giustizia in assenza di dominio, ossia senza sottomettere alcuni cittadini alla volontà e al potere privato di altri”.

Ma c’è una soluzione?

“La privatizzazione spesso emerge come risposta a un problema concreto e reale dello Stato amministrativo moderno: il carattere alienante, elefantiaco, e spesso abusivo della burocrazia. Nel libro dunque concludo con alcune linee guida per un modello di amministrazione pubblica che da un lato possa ritenere i benefici, in termini di competenze specifiche, di un’amministrazione gestita da funzionari pubblici meritocraticamente selezionati, ma che dall’altro lato apra al suo interno ampi spazi per la deliberazione democratica, coinvolgendo direttamente i cittadini nella gestione di importanti funzioni pubbliche, così da ridurre gli aspetti più impersonali ed alienanti del sistema burocratico. Per uscire dalla privatocrazia, non basta dunque limitare il potere del privato. Bisogna anche internamente democratizzare il pubblico”.

Mi scusi se mi permetto. Ma questa mi sembra un po’ una impossible mission… Comunque, per finire, qual è oggi il suo rapporto con Viterbo?

“Ogni quattro anni abbiamo un anno sabbatico, che io uso soprattutto per condurre attività di ricerca.  Ma rimango molto attaccata alla mia famiglia e alle mie origini. Tutti gli anni passo lunghi periodi a Viterbo, sia d’inverno che d’estate. Un fatto certamente positivo del mio lavoro è che, quando non insegno, posso lavorare da casa e questo mi permette di tornare spesso in Italia. Mio marito, americano, ormai si autodefinisce ‘cittadino onorario della Tuscia’. Ha da subito sviluppato un profondo interesse per l’Italia e soprattutto per le nostre zone. D’estate passiamo lunghi periodi al lago di Bolsena. Spesso ci raggiungono gruppi di amici molti dei quali anch’essi espatriati e, tra un assaggio di coregone e un bicchiere di vino bianco frizzantino, ci immaginiamo un futuro in cui, chissà, ritorneremo tutti Italia”.

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