Paolo Giannini lo storico dimenticato, l’archeologia è un mosaico, dai dettagli si legge la storia

Di Luciano Costantini

L’appuntamento è fissato per le cinque della sera sul sagrato della basilica della Quercia. Paolo Giannini arriva puntualissimo, insieme ai rintocchi che si irradiano dal campanile. C’è un sole che incendia l’aria e ferisce gli occhi. La ricerca di un po’ di ombra, di un tavolo, è esigenza primaria per una conversazione, quasi da vecchi amici al bar. Chi è Paolo Giannini? Sintetizzare la sua vita su un ipotetico biglietto da visita sarebbe riduttivo, inappropriato, ingiusto. Come ingabbiare un solo colore, una sola immagine, in un caleidoscopio. E’ stato venditore di caramelle, piazzista, aiutante tipografo, insegnante, archeologo, guida turistica, giornalista. Ma soprattutto è stato ed è uno storico, tra i più autorevoli della Tuscia. Scopritore e cantore innamorato della propria terra, che ha descritto in tante pubblicazioni: “Centri etruschi e romani nel Viterbese”, “Viterbo Fierezza Medievale”, “Ferento città dai tre volti”, “Centri etruschi e romani dell’Etruria Meridionale”. L’approccio di Paolo alla chiacchierata è timido, circospetto, quasi timoroso. Poi, con il fluire del racconto, sempre arricchito di coloriti aneddoti, il nostro si trasforma in un impetuoso torrente. Inizio quasi in surplace. “Abito in campagna lungo la strada tra qui e Vitorchiano. La mia giornata, sempre uguale, inizia alle 6 del mattino, colazione, lavori non troppo pesanti nell’orto di casa, un pranzo frugale, un riposino di un’ora non di più, cena e infine a letto. Ho una moglie, due figli, il 29 luglio faccio 83 anni e sono nato due volte”.

Scusami, (il “tu” confidenziale è quasi doveroso tra colleghi) come sarebbe?

“In effetti sono nato il 29 luglio a Bagnaia nel 1938, ma al momento di iscrivermi alla terza media, scoprii che sul certificato di nascita c’era scritto 24 luglio. Insieme a me era nato un altro bambino e la levatrice di allora consegnò i due documenti in Comune. Evidentemente qualcuno fece confusione. Lo stesso giorno in cui venni alla luce il capo della sezione fascista di Bagnaia arrivò in casa mia e ci regalò una piccola divisa da figlio della lupa. Perché? Semplice, il 29 luglio era nato pure Mussolini. Il nonno voleva bruciarla, invece mia madre la mise da parte e alla fine della guerra mi fu molto utile perché la pezza di lana nera del maglione servì per riscaldarmi”.

Parlami del Giannini adulto.

“Ho fatto di tutto. Ho studiato al collegio Ragonesi di Viterbo. Nel ’51 è morto mio padre, lasciandoci soli, io mia madre e i miei tre fratelli. Ho cominciato a lavorare, prima in campagna, poi con le trebbie. Partivamo da Bagnaia e arrivavamo fino a Palidoro. Sono andato più volte a raccogliere le balle di fieno in Maremma. Ho fatto il venditore di stoffe, ho lavorato per tre o quattro anni alla tipografia Agnesotti in piazza del Collegio. Facevo e piedi Viterbo/La Quercia due volte al giorno. Alla fine riuscii a comprarmi per 5.000 lire una bicicletta da donna. Per tutto il giorno sudavo e la sera studiavo per arrivare all’università e laurearmi in Medicina come avrebbe voluto mio padre. Ma non mi fu possibile continuare. E mi iscrissi all’istituto Magistrale. Cominciai a dare ripetizioni. Poi la mia vita cambiò improvvisamente”.

Come?

“Un giorno marinai la scuola, insomma feci sega. Il professor Bruno Barbini, che era il mio insegnante di lettere, mi intercettò nei pressi di Porta Faul dandomi appuntamento per il giorno dopo. Un faccia a faccia che non prometteva nulla di buono. Invece, mi propose una piccola collaborazione gratuita al giornale Il Tempo. C’erano giornalisti di grande esperienza e professionalità: Martellotti, Mascolo, Falcioni”.

E il Giannini storico come nasce?

“A seguito di due circostanze quasi fortuite. La prima, un giorno al Magistrale la professoressa di Italiano Quadrani ci parlò degli Etruschi dicendoci che questa era la loro terra. Mi innamorai. Cominciai a comprare i primi libri sull’argomento. A Bagnaia per arrotondare vendevo le caramelle al cinema, una lira per me ogni dieci di incassate. Il titolare, un certo signor Petti, una sera mi fece: vuoi sapere degli Etruschi? Vai giù verso l’Acquarossa sai quante tombe troverai…Ci andai con la fedele bicicletta e, grazie all’aiuto di un giovane che incontrai vicino a un casale, riuscii a scoprire qualche tomba e un po’ di coccetti”.

E la seconda circostanza fortuita?

“Attraverso i libri venni a sapere dell’esistenza di Castel d’Asso, allora pressoché sconosciuta ai viterbesi. Un giorno vi andai con la indispensabile bicicletta. Era un posto da far paura, improvvisamente scoppiò un tremendo temporale e trovai rifugio in una tomba. Finito il temporale me ne stavo andando quando vidi arrivare una Mercedes con quattro persone, erano tedesche. Cominciarono a farmi domande sulla dislocazione di varie tombe con tanto di cartine topografiche. Non seppi rispondere, eppure una certa conoscenza delle cartine topografiche l’avevo acquisita come boy scout. Perché sono stato anche boy scout. Tornai a casa a dir poco arrabbiato: io sono etrusco e non so niente, quei maledetti tedeschi invece sanno tutto. Così cominciai ad approfondire gli studi di archeologia. Tra l’altro a Castel d’Asso scoprii alcune tombe e un cippo meraviglioso a forma di casa, interamente dipinto, che oggi è custodito al museo della rocca Albornoz”.

Deve essere stata un’emozione irripetibile…

“Ah sì. Ma quella più forte la provai il giorno in cui nella tomba Orioli da uno degli ultimi loculi saltarono fuori quattro, cinque vasetti tutti integri. Meravigliosi. Li portai a casa, ma non so che fine abbiano fatto”.

E la delusione più grande?

“Quella di non aver avuto il giusto riconoscimento dalle varie amministrazioni comunali di Viterbo. Un esempio? La storia di una mostra con pezzi etruschi finiti nell’Est Europa, al di là di quella che era la cosiddetta Cortina di ferro. Seppi che doveva essere allestita a Milano e feci del tutto per portarla anche a Viterbo. Ci riuscii. Fu un successo enorme. Bene, anzi male, nel comitato organizzatore io non c’ero proprio”.

Non ti sei sentito aiutato…

“Mai, mai. Un illustre sconosciuto. Eppure ho anche creato la prima televisione libera a Viterbo e sono stato direttore di Radio Punto Zero”.

Perché non hai fatto l’archeologo?

“Perché sono nato povero. Mi sono laureato in Filosofia e Pedagogia tenendo in braccio mio figlio. L’archeologia resta il mio grande amore, vado in giro, ma non porto più nessuno”.

Dove vai?

“Un po’ ovunque anche nei paesi sconosciuti. Se tu mi conduci nel più piccolo dei centri, dai monumenti riesco a spiegarne la vita perché credo di aver raggiunto un livello di conoscenze importante. Guarda che l’archeologia è un mosaico, dai dettagli si legge la storia. Tempo addietro ho spiegato a un amico: se ti dovessi perdere, volgi gli occhi alla chiesa, la facciata è sempre rivolta a Ovest mentre la parte sacra del tempio guarda ad Est. Potrai così trovare l’orientamento”.

Ma si può veramente e finalmente fare qualcosa per valorizzare il nostro immenso patrimonio storico?

“Tanto, tantissimo. Un esempio. Ferento, più o meno in zona Acquarossa, lì a suo tempo condusse diversi scavi la delegazione svedese guidata dal re Gustavo. Detto per inciso l’insediamento etrusco io lo avevo scoperto ben prima del sovrano, grazie anche alle indicazioni e alla disponibilità di alcuni tombaroli. Be’ avevo, avrei ancora, un progetto per realizzarvi un villaggio etrusco esattamente com’era, con i blocchi di tufo scalpellati, le statue, le case. Di innovativo avrei aggiunto soltanto i servizi igienici. Ovviamente. Un villaggio che avrebbe potuto essere utilizzato come piccolissimo sito per brevi soggiorni. Per la Tuscia sarebbe stato un importante veicolo turistico. Non se ne è fatto nulla”.

Il prossimo lavoro?

“Be’ qualcosa ce l’ho in testa. E poi ho tanti di quegli appunti…chissà che fine faranno… La verità però è che…non ho più tanta voglia di scrivere”. Il campanile della basilica della Quercia scandisce sei rintocchi, dopo un’ora la chiacchierata finisce. E’ stata una piacevole passeggiata nel passato in compagnia di un uomo e della sua esperienza di vita. E magari il prologo di un suggestivo futuro. Perché no?

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