Marco La Rosa: tre generazioni di facchini di S.Rosa

Diego Galli

La macchina di S. Rosa si appresta a ripartire, come ogni anno, la sera del 3 settembre. Una vera e propria “torre in movimento”, come qualche turista si è ritrovato a descriverla. Un vero e proprio monumento dell’altezza di circa 30 metri del peso di approssimativamente 5 tonnellate, un vanto per tutta la Tuscia.
A muoverla non vi è però nessun macchinario. Qualcuno direbbe che è la fede nella piccola Rosa – patrona e già protettrice della città di Viterbo dal lontano 1200 – ma sono i Facchini di S. Rosa il vero e proprio motore dell’imponente macchina.
Si tratta di una formazione di 113 uomini, tra i quali sette file di 9 persone ciascuna che si dislocano proprio sotto la base, i ben noti “ciuffi”, che portano un peso che può raggiungere i 150 chili. A spiegarci i segreti di questa grandissima festa – simbolo di Viterbo e dal 2013 Patrimonio dell’UNESCO – è Marco La Rosa, facchino dal 2011, accolito istituito e membro di una famiglia che può annoverare tra le sue fila almeno tre generazioni di devoti.
Prima di lui, anche il padre, Italo, portò sulle proprie spalle il peso della macchina e lo fece per moltissimi anni, addirittura dal 1966, all’età di appena 19 anni. Grazie a lui, la storia della Santa e la relativa festa vennero vissuti fin da bambino da Marco, che poté assistere anche a due dei trasporti più complicati: il fermo del Volo d’Angeli del ’67 e lo scampato incidente del 1986 con Armonia Celeste. Fu proprio in quest’ultimo caso che Italo e tutti gli altri facchini dimostrarono un coraggio fuori dal comune evitando il peggio proprio quando questa raggiunse la destinazione finale, ovvero la Basilica di S. Rosa, situata al termine del percorso. Ovviamente, come ci ricorda Marco, non tutti i facchini ne uscirono indenni e molti di loro riportarono danni di varia entità. Fratture, ernie del disco, vertebre schiacciate e altri infortuni non impedirono però a quegli eroi di portare a termine il trasporto e compiere il loro dovere. Italo La Rosa, conclude orgogliosamente il figlio, divenne poi consigliere e vicepresidente del Sodalizio dei Facchini, carica del tutto meritata, che gli permise di restare vicino alla sua amata macchina di S. Rosa per tutto il resto della sua vita.
“Essere facchino è uno stile di vita” – tiene a sottolineare Marco – “un qualcosa che davvero è radicato dentro l’anima”. Non si tratta di fare un mestiere o indossare un costume, come alcuni tendono a confondere. Vi è qualcosa di estremamente più profondo, che si sposa con il modello che ognuno dei facchini segue per tutta la sua vita: Santa Rosa. Mentre ci parla, i suoi occhi sono colmi di commozione, segno evidente di quanto queste parole siano veritiere.
Chiarezza viene inoltre fatta da Marco per quanto riguarda una delle dispute più in voga tra i viterbesi e i tantissimi turisti che ogni anno si avvicinano alla città per conoscere la grande tradizione. Rosa è santa, nonostante il suo processo di canonizzazione non sia ancora stato ultimato. Come prova abbiamo le parole dello stesso Papa Giovanni Paolo II, che la definì “santa” nella sua visita alla città nel maggio del 1984. Abbiamo inoltre una messa ufficiale, riconosciuta dalla stessa Chiesa per il giorno del 4 settembre. “Le chiacchiere sono quindi a zero” e noi non potremmo essere più d’accordo.
Qualche ulteriore dettaglio viene illustrato da Marco per quanto riguarda i requisiti per diventare facchino: un altro argomento che nella memoria popolare, a volte, tende a essere molto confuso. “Tecnicamente, oltre alla prova di portata e a un certificato medico di buona salute non vi sono altri requisiti. Bisogna avere tra i 18 e i 35 anni non ancora compiuti per sostenere la prova e, una volta entrati, si può restare facchino fino al compimento dei 60 anni”. Specificato questo, possiamo dire che chiunque sia in grado di soddisfare tali requisiti può avere la sua chance di servire la piccola Rosa da vicino. “Secondo lo statuto del Sodalizio, anche una donna o una persona di differente religione o cittadinanza può diventare facchino. Qualche anno fa una donna ci provò davvero, purtroppo non riuscì a compiere tutti e tre i giri con la cassetta da 150 chili sulle spalle e venne bocciata”.
Quest’anno, la macchina passerà ancora una volta a via Marconi, permettendo un allungamento del percorso ben gradito a tutti, sia al pubblico che ai facchini stessi. “Nessuna tradizione viene alterata con questo passaggio”, specifica Marco, “l’originario baldacchino, inizialmente trasportato solamente da quattro cardinali, è continuato a crescere negli anni e il percorso si è sempre più allungato nel tempo. In loro memoria portiamo le fasce rosse alla vita”. Le esigenze del momento, l’aumento costante del pubblico e i motivi di sicurezza, sono quindi delle giustificazioni più che valide per “evolvere” la tradizione. Inoltre aggiunge: “La macchina è arrivata fino all’Expo di Milano, è anche diventata patrimonio dell’UNESCO pochi anni fa. È giusto fare spazio per i turisti, così che possano tutti conoscere la nostra festa e io sono profondamente a favore di questo allungamento del percorso”.
Al termine della nostra chiacchierata, lo sguardo fiero di Marco volge al prossimo futuro e alla sera del trasporto. Per lui sarà il settimo ma dovrà passare ancora qualche anno per diventare un ciuffo. Nel frattempo, continuerà a seguire le orme del padre Italo, tramanderà la tradizione di famiglia e renderà sempre più fiere la madre e la sorella – Teresa e Federica – che ogni anno, la sera del 3 settembre, attendono il suo arrivo tra gli altri famigliari dei facchini, sulle gradinate della Basilica di Santa Rosa.
Per i viterbesi e per tutta la Tuscia, essere facchino rappresenta qualcosa al di là del coraggio e della devozione; Marco ce lo ha fatto capire con i suoi accorati discorsi e ce lo dimostrerà ancora meglio con le sue azioni.

Foto di Sara Poggi

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