Luigi Pagliaro, nella Tuscia la riscoperta e la valorizzazione di cibi e sapori antichi

di Donatella Agostini

Dal 4 al 7 luglio Viterbo ha riabbracciato Slow Food Village, il piccolo villaggio del “mangiare adagio” in piazza dei Caduti: un irresistibile invito a curiosare tra i numerosi e colorati stand gastronomici, a deliziare vista, odorato e gusto con le tante specialità provenienti da tutta Italia e oltre. Invito raccolto da centinaia di persone che hanno affollato il Village per tutta la durata della riuscitissima manifestazione, nonostante quest’anno si sia svolto al di fuori della consueta cornice di Caffeina. Antitesi felice alla fretta, all’indifferenza a ciò che si mangia, all’appiattimento dei sapori del fast food d’importazione, lo Slow Food Village incarna la rivendicazione orgogliosa della specificità enogastronomica italiana, la dichiarazione d’amore nei confronti delle nostre radici culinarie, ed è stato organizzato con attenzione e cura dei particolari dalla sezione Slow Food Viterbo e Tuscia. Abbiamo incontrato Luigi Pagliaro, portavoce di Slow Food Lazio e consigliere nazionale, che ci ha raccontato la filosofia che c’è dietro l’iniziativa. «Lo Slow Food Village – arrivato alla settima edizione – si svolge soltanto a Viterbo. E per noi è motivo di grande orgoglio. Non a caso ha ottenuto il riconoscimento ufficiale di Slow Food Italia, concesso a pochissime altre iniziative», esordisce Luigi con soddisfazione. Ma che cos’è Slow Food? «S.F. nasce a Bra, nel Cuneese, inizialmente come costola “enogastronomica” dell’Arci», ci spiega Luigi, romano di origine, attuale addetto stampa e gestore dei servizi informativi della Camera di Commercio di Viterbo. «Sul finire degli anni Ottanta, con la grande provocazione dell’apertura del primo Mc Donald’s a Roma, il movimento si trasforma e decide di contrapporsi alla frenesia della “fast life” di stampo anglosassone. Di qui la nascita di una nuova attenzione nei confronti di ciò che si mangia, l’amore per il suolo, per il paesaggio, per le attività agricole, per la tutela della biodiversità. La riscoperta e la valorizzazione di cibi e sapori antichi. Oggi gli avamposti di Slow Food dislocati in tutto il mondo sono uniti sotto un’unica filosofia: cibo buono, pulito, giusto per tutti. Un cibo accessibile, prodotto secondo criteri ecosostenibili, di qualità; un sistema in cui produttori e operatori del settore vengano retribuiti il giusto». Pensare a Slow Food come ad un’associazione dedita al mangiare e bere bene è pertanto estremamente riduttivo: nel suo ambito esiste una casa editrice, una fondazione per la biodiversità, addirittura un’università per le Scienze Gastronomiche legalmente riconosciuta. E Slow Food porta avanti anche importanti progetti di carattere internazionale, a tutela dei piccoli produttori in ogni parte del mondo, e iniziative didattiche nelle scuole. «L’aspetto che caratterizza il movimento rispetto a qualsiasi altra attività similare è la capacità di vedere un prodotto nel suo insieme, nel suo contesto. Per Slow Food un vino non è soltanto colore, profumo e sapore: è l’azienda agricola del produttore, la sua storia, il territorio, il terroir, il microclima, il tipo di coltivazione, di produzione, il vitigno… è un discorso di insieme, che poi arriva anche al consumo. Nel corso degli anni la visione è stata ulteriormente ampliata: per noi il cibo è la chiave per volgere l’attenzione su altre urgenti problematiche». Da più parti infatti si sta lanciando un grido di allarme per l’aggravamento delle condizioni ambientali e climatiche dell’intero pianeta. «Ormai è un treno che non si ferma, e non ci si vuole render conto. Attraverso il cibo – ed è questa l’ambizione di Slow Food – possiamo dire: fermiamoci un attimo, rendiamoci conto di quello che sta accadendo». Luigi Pagliaro è una delle tante persone che ha scelto di vivere nella Tuscia, e non se ne è mai pentito. «Un giorno rimasi folgorato da una lettura, in cui si sosteneva che l’umanità sarebbe finita soprattutto per la depressione», racconta Pagliaro. «Intrappolate nel cemento delle città, le persone non avrebbero più vissuto il paesaggio, i profumi, i colori, i sapori, e si sarebbero intristite… quella lettura stava parlando di me, che a Roma uscivo la mattina presto sotto i neon, trascorrevo la giornata in ufficio alla luce del neon, e uscivo a sera inoltrata per le vie illuminate dalle stesse luci. A trent’anni dovevo dare una svolta alla mia vita». Luigi sceglie di trasferirsi dapprima a Bagnaia, poi mette su famiglia e si sposta definitivamente a Celleno, un piccolo borgo tranquillo immerso nella natura, a quindici chilometri da Viterbo. «Una breve tragitto che mi consente di accorgermi del fluire delle stagioni nella campagna. Sono trascorsi ormai venticinque anni e non ho ancora smesso di stupirmi e di apprezzare il territorio che mi circonda. Non tornerei mai più in una grande città come Roma: qui ho la fortuna di svolgere un lavoro che amo, e quella di vivere in un territorio di adozione ricco di bellezza». Il percorso che lo ha avvicinato al mondo dello slow food è stato tortuoso, ma predestinato. Dopo una laurea in Scienze dell’educazione, Luigi prende un master in comunicazione e un altro in cultura dell’alimentazione. In Camera di Commercio segue il progetto del marchio “Tuscia Viterbese” e comincia ad avere sensibilità verso tutto ciò che riguarda la produzione agroalimentare, finché arriva l’incontro folgorante con il mondo slow food. «Nel nostro territorio operano tanti piccoli produttori e contadini – come quelli che sono stati ospiti al Festival – e sappiamo quanta fatica fanno a svolgere il loro lavoro, per assicurarci prodotti sani e di qualità. Invece la monocoltura industriale riempie gli scaffali di prodotti scadenti a basso prezzo. Ma quello che non paghiamo prima o poi lo dovremo rendere, in termini di costi sanitari, climatici, ambientali. Invece bisognerebbe cominciare piano piano ad essere consumatori consapevoli, leggendo le etichette, preferendo chi valorizza e cura la propria terra. Possiamo essere decisivi e cambiare la qualità della nostra vita e anche quella degli altri». Tematiche importanti di cui si è ampiamente parlato al Village. «La nostra iniziativa è più concentrata e locale rispetto ad esempio al Salone del Gusto di Torino, ma ha avuto una rappresentazione importante. Oltre alle degustazioni, nella piccola arena si sono svolti gli incontri e si è parlato. Avremmo fatto presto a mettere una decina di stand e basta… Ma non credo ad un evento così. A me interessa che le persone mentre mangiano sentano parlare… e magari pensino che forse agendo in modo diverso le cose potrebbero cambiare, per loro e per gli altri. Allora è questo lo scopo dell’iniziativa».
www.slowfoodvillage.it
www.facebook.com/slowfoodviterboetuscia

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