Lavinia Piermartini racconta la Tuscia attraverso la ceramica antica

di Francesca Pontani

“La mia formazione accademica nasce qui nell’Università della Tuscia e fin da subito il mio interesse è stato per i materiali ceramici. Prima quelli provenienti dagli scavi e dalle ricognizioni di superficie del territorio intorno il sito archeologico di Ferento, che sono stati anche l’oggetto della mia tesi triennale. In seguito invece mi sono spostata più avanti nella cronologia dei materiali studiando materiali provenienti dai cosiddetti “butti”, che sono tipici contesti viterbesi, e poi materiali che sono invece del tardo Medioevo e rinascimentali.

Dopo la laurea ho continuato il mio percorso professionale svolgendo presso l’Università dei laboratori: insieme ai ragazzi aprivamo dei contesti archeologici ancora inediti e facevamo insieme tutte quelle che erano le fasi di studio dei materiali ceramici, un metodo di studio importante per far conoscere ai ragazzi il lavoro che deve fare un archeologo; inseguito questi materiali venivano studiati e pubblicati, o diventavano oggetto di conferenze o di mostre.
Lo scorso anno infatti è stata svolta una mostra presso la fondazione Carivit di Viterbo a Palazzo Brugiotti relativamente ai primi materiali che erano stati studiati con i ragazzi e cioè i materiali provenienti dal territorio di Celleno.
I reperti in mostra erano stati 40, ma in realtà i materiali studiati sono circa 8000 frammenti per 500 vasi ricostruiti”.

Queste le parole della dott.ssa Lavinia Piermartini che con la sua professionalità e il suo entusiasmo racconta un aspetto molto importante della professione di un archeologo: quello della conoscenza dei materiali ceramici, molto spesso veri e propri rifiuti gettati via, ma che per noi rappresentano degli indizi estremamente importanti per conoscere un contesto storico e umano. E soprattutto qui nella Tuscia di Viterbo i materiali ceramici ci mostrano anche intrecci storici tra famiglie nobili dell’Italia centrale, come vedremo soprattutto a Graffignano.

“Mi sono occupata dei materiali ceramici di Celleno, ho scavato per diversi anni a San Valentino (Soriano nel Cimino), a San Leonardo presso Vallerano, a Ferento, a Tessennano e presso i tre “butti” del castello di Graffignano”.

Perché la vostra attenzione di ricerca s’indirizza presso il castello di Graffignano?
Perché a Graffignano all’interno del castello sono presenti tre scarichi. I primi due sono quelli che propriamente chiamiamo pozzi da butto, caratteristici del viterbese: la fossa di forma conica o troncoconica, scavata all’interno del terreno, forse utilizzata in tempi precedenti per lo stoccaggio delle derrate oppure per l’accumulo di liquidi, che però vennero poi riutilizzati nel corso del Medioevo per gettare l’immondizia. Ed erano collegati all’interno del castello proprio da dei condotti, dei tubi che correvano all’interno degli edifici, nei quali già dalla cucina o dai piani superiori si gettava direttamente la spazzatura, come avviene ancora oggi nelle case francesi.
Tutto questo è un contesto estremamente affascinante, perché noi attraverso quel qualcosa che spesso non ci piace vedere (l’immondizia) ricostruiamo la storia di chi è vissuto all’interno di alcuni palazzi come per esempio appunto il castello di Graffignano.

Che cosa ci raccontano questi rifiuti del castello di Graffignano?

I rifiuti di Graffignano ci dicono molte cose. Una prima cosa molto importante è che lo scavo archeologico è stato uno scavo condotto stratigraficamente, una cosa che nel viterbese non è molto comune, perché la quasi totalità dei contesti archeologici sono stati irrimediabilmente danneggiati dall’attività dei clandestini.
Mentre questo scavo è stato invece condotto da Giuseppe Romagnoli tra il 2009 e il 2011. E quindi avendo una stratigrafia è stato molto più semplice studiare e capire determinate dinamiche. Per es. abbiamo visto che gli scarichi erano tre e di tre periodi differenti. Non sono stati riempiti tutti insieme ma ognuno di essi ha una particolare vita e un particolare riempimento.
Ad es. nel primo, un pozzo riempito fino al 1425 troviamo prevalentemente maioliche arcaiche.

E questo cosa vuol dire?
Che è stato riempito in un tempo breve. Infatti c’è solo una classe ceramica. Molte ciotole e queste ciotole appaiono molto frammentarie, cioè non riusciamo a ricostruire interamente i materiali, ma sono dei piccoli frammenti e tra l’altro presentano sulla superficie dei fori. Questi fori sono stati fatti in un periodo successivo della vita del vaso per far si di poterli riattaccare con delle graffe metalliche. Questo significa che era materiale riutilizzato per molto tempo, passato prima dai signori del castello e poi da qualcun altro che li aveva riaggiustati e riutilizzati per poi gettarli via definitivamente. E poi c’erano rifiuti di cibo di tutto ciò che avanzava dalla tavola: maiali, polli, non cibi particolari ma erano del cibo pregiato per il fatto stesso che erano utilizzati animali giovani, il sintomo della ricchezza dei signori del castello era dato proprio da questo particolare piuttosto che da animali strani ed esotici.

Nel secondo butto invece?
Qui abbiamo trovato una situazione diversa. Il pozzo è molto più profondo. Qui abbiamo molti più strati. Una stratigrafia più estesa e particolare.
Qui si individuano due fasi. Negli strati più antichi la presenza di maioliche arcaiche e un boccale in zaffera a rilievo, e soprattutto una grande brocca da toeletta, perché alta circa 60 cm., che reca il nome di “Francesca”.
Facendo un’indagine storica abbiamo identificato con il periodo in cui viveva nel castello una tale Francesca Baglioni. Questi Baglioni di Graffignano erano una famiglia della Teverina non avevano fino a quel momento nulla a che fare con i Baglioni famosi di Perugia. E fu proprio questa Francesca Baglioni di Graffignano che sposa, per mantenere il cognome di famiglia, un Baglioni di Perugia. Quindi le due famiglie si uniscono e il castello passa da quelli che erano i Baglioni della Teverina ai Baglioni di Perugia. E possiamo pensare che questa brocca sia proprio legata a questo periodo di passaggio, perché è molto probabilmente prodotta a Deruta, luogo in cui in quel momento i Baglioni di Perugia avevano delle botteghe di ceramica dalle quali si servivano.

Studiare la ceramica antica può essere una spinta alla promozione del territorio?
Beh penso proprio di sì. Queste classi ceramiche raccontano di una tradizione locale. Anche Viterbo al pari di Orvieto o della Toscana è stato un grande centro produttore di ceramica, e i materiali di Viterbo sono materiali eccezionali, di un alto livello di artigianato artistico, spesso esposti in tutti i musei del mondo, ma non qui a Viterbo, purtroppo. Perché c’è ancora poca consapevolezza del valore di questa nostra tradizione locale.
Infatti Viterbo si è sempre distinta per la produzione ceramica, soprattutto maiolica arcaica e zaffera a rilievo.
Viterbo poi per esempio fa già parte del circuito delle città della ceramica da due anni, un circuito nazionale che vede presenti città come Faenza.

Il suo lavoro è una narrazione preziosa per raccontare la Tuscia Viterbese: quali sono i progetti futuri?
Sto studiando nuovi materiali inediti e mi piacerebbe potermi occupare in maniera più estensiva di materiali ceramici provenienti dal contesto di Viterbo, così da avere contesti di confronto provenienti da città.
E spero che tutto ciò sfoci nello sviluppo di nuove mostre in modo da rendere fruibili questi meravigliosi materiali ceramici per tutti e non solo per gli addetti ai lavori di ambito accademico.

Foto:mostra Palazzo Brugiotti materiali provenienti dal territorio di Celleno

Foto cover Francesca Pontani

 

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