La famiglia Di Prospero: Santa Rosa di padre in figlio

di Arnaldo Sassi

Gianluca e Luca Di Prospero

Santa Rosa, di famiglia in famiglia. Dai Celestini ai Di Prospero. Anche se in questo caso la storia è completamente diversa. Ma uguale rimane la passione per la santa, per la festa, per la Macchina, per la tradizione viterbese.

Gianluca Di Prospero è uno che Santa Rosa ce l’ha sempre avuta nel sangue. Da quando era bambino. Non ha mai fatto il Facchino, a differenza del fratello Claudio, ma ha partecipato a ben quattro concorsi per la realizzazione della Macchina, piazzandosi sempre ai posti d’onore, ma mai primo. Una specie di maledizione la sua, che però non gli ha tolto quell’entusiasmo e quell’amore che lo hanno sempre accompagnato. E che ha trasmesso anche al figlio Luca.

“La mia passione per santa Rosa?” esordisce. “E’ nata dentro casa. Io sono nato nel 1967, l’anno del fermo, e mio padre Giovanni era sotto quella Macchina. Mia madre si mise paura e gli disse chiaro e tondo che doveva smettere. Troppi rischi. Con cinque figli sulle spalle non poteva permetterseli. Allora mio padre rispose che comunque lui il Volo d’Angeli lo avrebbe voluto portare. Nel ’68 era ancora sotto la Macchina, poi si ritirò in buon ordine”.

Va bene, ma come è stato il tuo approccio?

“Nel 1974. Mi ricordo che ero piccolo. Avevo sette anni. Mio padre mi portò a vedere la Macchina al Suffragio. Mi teneva in collo. Io non sapevo cosa fosse. Ad un tratto vidi un grande bagliore e poi apparì come d’incanto il campanile. Misi le mani sul volto di mio padre per l’emozione e mi accorsi che stava piangendo”.

Come mai non hai mai provato a fare il Facchino?

“Per vari motivi. Il primo è che a 18 anni mi sono arruolato in Polizia e sono andato via da Viterbo. Ma una volta ci ho provato. Mi convinse a fare la prova mio fratello Claudio, che era nel Sodalizio da vari anni. Ma non andò bene. E non ci ho più riprovato”.

Quindi hai cambiato strategia…

“Beh, la passione è rimasta tutta. Ma la decisione di provare a fare l’ideatore di una nuova Macchina nacque quasi per gioco. Io sono abbastanza capace a modellare e così un giorno provai a fare un modellino di Macchina, ma solo per conservarla dentro casa. Poi la videro mio padre e mio fratello e mi dissero che era molto carina. Allora parlai con un falegname del Pilastro, si chiamava Giovanni Saveri, si occupava della mini-Macchina di quel quartiere. Fu lui a invogliarmi a fare un progetto e a presentarlo al concorso. E allora partii. Era il 1998”.

E cosa accadde?

“Io ero un neofita. Totalmente all’oscuro di tutto ciò che si dovesse fare. E allora mi rivolsi a persone esperte, ma quel progetto mi costò molti soldi. Spesi quasi cinque milioni di lire. Me li regalò mio padre”.

Purtroppo non hai vinto…

“No. Arrivai terzo. Vinse ‘Tertio millennio adveniente’. Però Il Messaggero quell’anno organizzò agli Almadiani una mostra con tutti i bozzetti concorrenti e la gente poteva votare quello più gradito. Lì arrivai primo. Fu una bella soddisfazione, anche se di consolazione. Ma quel successo popolare mi spinse a voler continuare. Altrimenti sarebbe finito tutto lì”.

Insomma, nella tua “tigna” (detto alla viterbese) Il Messaggero qualche responsabilità ce l’ha…

“Eccome! Anzi, se ci ho riprovato altre tre volte (ride, ndr) è proprio colpa del Messaggero!”.

E come è andata?

“Mi sono sempre piazzato nelle prime posizioni”.

La tua passione per santa Rosa però, non si è fermata solo ai progetti per la Macchina…

“No. Io sono innamorato di santa Rosa, ma sono innamorato di Viterbo. Ho scritto sei libri: due dedicati alla santa e quattro alla città. Di questi, due parlano della seconda guerra mondiale e due dei misteri viterbesi. Insomma, in me non c’è soltanto la ‘machinite’, come si dice in gergo”.

Accanto a Gianluca c’è il figlio Luca, appena 22 anni, ma che ha già raccolto l’eredità di famiglia, tanto è vero che è uno dei protagonisti della mini-Macchina di Santa Barbara.

“La passione è nata quasi subito. Abitando al Pilastro ho fatto il mini-Facchino in quel quartiere e mi sono avvicinato anche alla Macchina vera e propria seguendo l’attività di mio padre. Anzi, nel 2008 – avevo solo sette anni – lo aiutai a modellare il prototipo della statua della santa. Quello che poi partecipò al concorso”.

E come sei arrivato a Santa Barbara?

“Grazie al capo-Facchino del quartiere Diego Terzoli. Mi venne a cercare perché volevano realizzare un nuovo modello di mini-Macchina e mi chiesero di riprodurre in scala il progetto presentato al concorso del 2008. Mio padre si è voluto tirar fuori del tutto e allora io mi sono divertito a fare i dovuti aggiustamenti, fino ad arrivare alla realizzazione completa”.

E il miracolo s’è compiuto…

“Sì. Quello di quest’anno è stato il terzo passaggio, ma ci sono stati due anni di stop a causa del Covid. Per me una grande soddisfazione, ma anche un’esperienza importante di crescita personale”.

Per passare poi a ideare la Macchina più grande?

Luca sorride. “Il destino è nelle mani di Dio e… di santa Rosa”.

Luca a sinistra

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