Gianfranco Boi, vecchia gloria gialloblu anni ’70 che a Viterbo ci è rimasto

Di Luciano Costantini

E’ nella top ten della Viterbese con 174 presenze. Insieme ad autentici mostri sacri della storia gialloblù: Bernini, Stavagna, Testorio, Ciccozzi, tanto per citarne qualcuno. “E pensare che a Viterbo non volevo venire”.

E perché?

Gianfranco Boi scuote per un attimo la testa. Ancora oggi non riesce a darsi una spiegazione: “Non so…forse ero troppo legato ad Anzio dove sono nato 71 anni fa. Poi qualcuno, non ricordo esattamente chi, mi convinse a venire qui dove mi sono sposato con Rosella, dove ho avuto un figlio David che vive insieme a Ilenia che è di casa da anni. E dove sono diventato nonno. Qui ho lavorato e qui vivo. Sì, mi ritengo una persona realizzata e serena”. La raffinata mezzala gialloblù anni Settanta si esprime con pacatezza mentre sgrana un rosario di ricordi. Soltanto un paio di strappi emotivi nel corso dell’intera chiacchierata. Per esempio, quando puntualizza con un sorriso e un pizzico di legittimo orgoglio: “Vero, non ho il record di presenze, ma resto il centrocampista con il maggior numero di gol, 42 in campionato e 2 in Coppa Italia”. Si sente un viterbese doc, certo non per nascita, ma perché gli scarpini lo hanno portato negli anni a calcare i terreni di gioco – verdi o polverosi che fossero – di mezza provincia. “Terminata la felice esperienza con la Viterbese, sono passato al Marta, poi al Ronciglione, poi al Cura di Vetralla, poi ancora a Viterbo al Villanova, ho chiuso a Castiglione a 38 anni. C’era sempre l’amore per il calcio, c’erano molto meno le gambe”.

E ha detto basta con il pallone?

Ma per carità. Ho cominciato a dedicarmi all’insegnamento dei bambini, al Pilastro e al Murialdo, poi è finita. Diciamo che adesso sono disoccupato, anche se prontissimo a ricominciare con i ragazzi. La passione è troppo forte.

A proposito di ragazzi, lei è stato una promessa…

Così dicono, ma non esageriamo. Ho debuttato a 16 anni in serie D, poi sono passato alla Mancini di Civitavecchia dove mi portò mister Melchiorri, ero il suo figlioccio. Poi all’Omi di Roma, in seguito al Cynthia di Genzano dove sono rimasto quattro anni conquistando la C. Infine la Viterbese, senza entusiasmo. Ma è cambiato tutto in un baleno. Forse è accaduto la sera in cui vidi per la prima volta, qui da via Marconi, la macchina di santa Rosa. Uno spettacolo autentico, da lasciare senza fiato. Viterbo mi ha portato fortuna. Però anche io porto fortuna perché molte, se non tutte le squadre nelle quali ho giocato, hanno conquistato la promozione. Nel frattempo, ovviamente, ho dovuto lavorare perché ero orfano di padre e avevo una famiglia alle spalle. Prima come operaio agli Aeroporti di Roma, facevo i turni di notte e nel pomeriggio venivo a Viterbo per allenarmi. Poi qui alla Saspi.

Lei aveva un piedino da favola. Come mai non è arrivato ai massimi livelli?

In effetti, ci fu la possibilità di approdare al Lecco quando veleggiava tra le piccole/grandi di provincia, però all’ultimo momento non se ne fece nulla. A loro serviva un attaccante e non una mezzala. Così mi dissero…chissà se era la verità.

Ed è rimasto a Viterbo…

E già. Ma con grande piacere. Qui ho conosciuto mia moglie anche se…

Anche se?

Fu causa involontaria di problemi con l’allenatore di allora, Persenda. Era il dicembre del ’76. Il mister mi rimproverò con durezza per non averlo informato preventivamente del mio matrimonio. Risultato, rimasi fuori squadra per diverso tempo.

Insomma, non furono rapporti idilliaci.

Diciamo così. Sicuramente furono più sereni con Lojacono, Merlin, Martorelli. Soprattutto con Roberto Franzon, un autentico signore. Dopo pranzo e prima delle partite ci radunava attorno al tavolo e stilava la formazione con le carte da gioco. E vincevamo sempre. Con lui di tanto in tanto riusciamo anche a sentirci.

E con gli altri compagni di tante battaglie?

Ci riesco talvolta con Franco Sala, lavora in banca ed è nonno come me. Poi con Cuccuini anche se è difficile contattare Ennio perché ha sempre il telefono staccato. Ricordo con grande affetto Scicolone, un autentico killer d’area di rigore, quell’iradidio che era Solfanelli, quel gentiluomo che era Vuerich.

Va sempre allo stadio…

Gianfranco deglutisce, probabilmente per mascherare la commozione: “Andarci è, anzi è stato, sempre un grandissimo turbamento, ma in positivo. Impossibile da spiegare. Ho rivissuto momenti esaltanti, irripetibili. Un giorno, prima di una partita ci siamo messi a palleggiare con Stefano Palmieri ed Ennio sotto la tribuna. Ci è passata dinanzi una vita. Però da quattro anni non vado più”.

E perché?

Uno sgradevole ricordo. Ero con mia moglie e stavo cercando di spiegarle alcuni fondamentali del gioco. Alle spalle sentimmo qualcuno dire con toni critici “senti un po’ chi parla…”. Rosella ci rimase male e anche io. Tutto superato, però da quel giorno non siamo più entrati alla Palazzina. Il calcio resta il mio grande amore e Viterbo è diventata da tanto tempo la mia città. Certo tutto è cambiato: dirigenti, pubblico, calciatori. Basti dire che a noi giocatori di quei tempi capitò più di una volta di andare ad acquistare il pallone, non i palloni, pagando con i nostri soldi. E magari non avevamo neppure incassato lo stipendio”. Sorride Gianfranco: “Viterbo non era Genzano”.

E che c’entra Genzano?

Be’ lì, quando arrivai, il giorno del primo allenamento, mi accolsero con una fiamminga di bucatini. Che spettacolo!

 

Foto archivio del giornalista Massimiliano Mascolo:

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