Da Arlena di Castro alla Fondazione Carivit: Luigi Pasqualetti, una vita per la Tuscia

di Arnaldo Sassi

Luigi Pasqualetti

Da Arlena di Castro a Viterbo. Sempre con la Tuscia nell’anima. Con un riferimento particolare all’ambiente. Sia in gioventù, grazie alla sua azienda di allevamento di bestiame, sia adesso, a 69 anni (“quasi 70” aggiunge lui), con la guida della prestigiosa Fondazione Carivit.

Nome: Luigi. Cognome: Pasqualetti. Un omone piuttosto alto, ma dai modi affabili e cortesi. “Sì – esordisce – la mia vita si è consumata tutta nella Tuscia. Fino a 10 anni nella nativa Arlena, poi a Viterbo, dove ho frequentato la quinta elementare alle cosiddette ‘scuole rosse’, poi le medie alla ‘Pietro Vanni’ e il liceo scientifico al Ragonesi’. Per un breve periodo sono andato a Perugia, dove mi sono laureato in medicina veterinaria, e quindi sono ritornato nella mia patria. Oggi abito a Tuscania”.

Una vita in campagna, si potrebbe dire…

“Certo. La mia azienda produce capi da allevamento di bestiame, in senso genetico. Vale a dire che riforniamo bovini da riproduzione, sia maschi che femmine, per altri allevamenti a livello nazionale. Portiamo avanti soprattutto l’allevamento della razza ‘limousine’  (originaria della regione di Limousin nella Francia sud-occidentale, ndr). Oggi però, se ne occupano soprattutto i miei figli”.

Si diceva del suo rapporto con la Tuscia…

“Ottimo. Perché è stata ed è la mia vita. Sono stato membro della Camera di Commercio sotto la presidenza di Silvio Ascenzi, poi sono entrato a far parte del consiglio di amministrazione dell’Università della Tuscia quando rettore era Scarascia Mugnozza e quindi presidente di Confagricolltura”.

E come è arrivato alla Fondazione Carivit?

“Grazie al legame con Aldo Perugi, quando era direttore generale della Camera di Commercio. Con lui si creò un legame forte, tanto che nel 1995 mi volle come socio e l’anno successivo entrai a far parte del consiglio di amministrazione, dove sono rimasto fino al 2014”.

E poi?

“E poi, a giugno dell’anno scorso, sono stato eletto presidente”.

Insomma, Tuscia for ever…

“Sì. Il mio legame col territorio non si è mai interrotto e al territorio ho dedicato tutto il mio impegno”.

Oggi però, le responsabilità sono maggiori…

“Vero. Perché le cose sono cambiate, e di molto. In altri tempi la Fondazione era chiamata a chiudere il cerchio. Nel senso che, di fronte a iniziative da valorizzare, c’erano una serie di enti pronti a intervenire. E poi c’eravamo anche noi. Oggi, vista la carenza di risorse, siamo rimasti soli”.

Mi tolga una curiosità. Da dove arrivano le risorse alla Fondazione?

“Va fatta un po’ di storia. Nel 1990, con la legge Amato, fu realizzata la scissione delle due anime delle Casse di Risparmio. Da un lato quella commerciale e dall’altro quella sociale. Poiché all’epoca le Fondazioni erano proprietarie delle Casse, furono tutte liquidate. E oggi noi abbiamo un nostro capitale che dobbiamo investire, per distribuire poi i proventi sul territorio”.

In quali settori?

“Sono quattro: arte, cultura, welfare e sanità pubblica”.

Cominciamo dall’arte…

“Interveniamo laddove riteniamo opportuno che si debbano salvaguardare e tramandare alle future generazioni i nostri tesori. Il museo della ceramica, che ha sede in questo palazzo, ne è il più classico degli esempi. Tra gli interventi più recenti posso ricordare la Pala d’altare di Neri di Bicci, risalente al XV secolo. Si trova nella chiesa di San Sisto e il restauro è quasi terminato”.

Parliamo del welfare?

“Tra le ultime iniziative realizzate il finanziamento di un progetto vinto dalla cooperativa ‘Gli Aquiloni’, facente capo a Juppiter. Ovverosia l’inserimento di 50 ‘ragazzi speciali’ – come li chiamano loro – nel mondo del catering. E’ stato un buon successo. Poi, la donazione di 23 defibrillatori a tutte le sedi provinciali della Croce Rossa. Infine, un aiuto all’associazione ‘Eta Beta’ (che accoglie giovani con problemi neurologici, ndr), con un progetto ideato dal compianto professor Schirripa. Un aiuto a questi ragazzi, ma anche alle famiglie che devono gestirli”.

E sulla sanità pubblica?

“Abbiamo sponsorizzato un progetto della Asl con l’acquisto di una costosa apparecchiatura per il settore del maxillo-facciale. Uno strumento che serve ad analizzare, con varie proiezioni, coloro che hanno malformazioni mandibolari, per poi decidere quale sia l’intervento chirurgico migliore da compiere. In più, abbiamo acquistato alcuni furgoni per gli animali, allo scopo di studiare, attraverso una serie di analisi, quelle che sono le nuove malattie, tipo l’influenza aviaria e anche il covid”.

Ma forse il fiore all’occhiello della Fondazione è quel mega investimento portato a termine all’interno della valle di Faul…

“Beh, sì. Io mi trovavo nel Cda quando l’avvocato Perugi buttò là l’idea. Anzi, la prima ipotesi fu quella di realizzare la struttura nella chiesa di San Caterina, il rudere che ancora oggi si trova all’inizio della valle. Pensi che quella, fino al 1915, era stata una fabbrica di fiammiferi della famiglia Ascenzi. Poi arrivò il Monopolio e dovette chiudere. All’epoca apparteneva all’avvocato Checchia, che non volle vendere”.

E allora?

“E allora, con molta paura, anzi con un certo terrore, si pensò al vecchio mattatoio, anche se la situazione in quel luogo era tutt’altro che tranquilla. C’era l’ex gazometro, il centro sociale, problemi col fosso Urcionio, con la rupe, con le tubature del gas e con i cavi della corrente. Insomma, tutto era in uno stato di completo abbandono: un bel ginepraio. Però, decidemmo di rimboccarci le maniche e partimmo”.

Sì. Siete partiti e siete anche arrivati…

“Mi piace sottolineare una cosa, che ritengo molto importante: quell’opera ha rappresentato l’inizio del recupero della valle di Faul, realizzato insieme alla Regione Lazio. Successivamente è arrivato quello di Unindustria, il parcheggio, l’ascensore e anche il ristorante”.

Quanto è impegnativo il suo ruolo?

“Non poco. Perché, a parte la presenza, bisogna studiare. Prepararsi ad affrontare tematiche che per me sono del tutto nuove. Perché, quando vengono a presentare i progetti, bisogna capire se sono validi oppure no”.

C’è l’assalto alla diligenza?

“Più che di assalto alla diligenza io parlerei di corte dei miracoli. Ma la cosa è piuttosto scontata. Perché siamo rimasti i soli a poter far fronte a certe esigenze. Inoltre, dobbiamo tener presente che noi dobbiamo riversare le nostre attenzioni su tutto il territorio. E nella Tuscia ci sono ben 60 Comuni”.

Un’iniziativa che le sta particolarmente a cuore?

“Quella realizzata insieme a Pro Loco, Comune e Curia vescovile. Visite guidate, seguendo i percorsi dettati dallo Scriattoli (scrittore viterbese e storico dell’arte, nato a Vetralla nel 1856 e morto nel 1936), durante le quali si possono ammirare anche gli angoli meno conosciuti della città. L’iniziativa sta avendo un buon successo. Si fanno due uscite al mese ed è già tutto prenotato fino a dicembre. Pensiamo di ripeterla anche l’anno prossimo; magari coinvolgendo anche i ristoratori, per far gustare le delizie della cucina nostrana”.

Da uno a dieci, quanto è soddisfatto di ciò che ha realizzato finora? E quali sono i suoi obiettivi futuri?

“Senza falsa modestia, mi darei un otto. Quanto agli obiettivi, penso che questa terra abbia bisogno di crescere e di cambiare la sua mentalità. E’ una provincia ancora chiusa. Invece è necessario aprirsi per far innamorare di Viterbo e del suo territorio quanta più gente possibile”.

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Trittico restaurato
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Sala delle Assemblee della Fondazione Carivit
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