Aldo Marinelli, ex ragazzo di San Leonardo e la reunion dei ragazzi dell’oratorio di Don Alceste

di Donatella Agostini

Foto in bianco e nero, fermi immagine ingialliti di ragazzi intenti a giocare spensierati, a recitare su un palcoscenico, o riuniti in gruppo per un occasione importante. L’abbigliamento rimanda al dopoguerra, quando le risorse erano poche e la fame di vivere tanta. Passa il tempo e nelle immagini i vestiti cambiano, seguendo l’evoluzione della società. Ma al centro delle foto di gruppo emerge sempre la figura di un uomo magro vestito di nero, gli occhi gentili incorniciati da occhiali rotondi di metallo. È indimenticabile don Alceste Grandori, e le foto sono le testimonianze dell’esperienza educativa e religiosa che questo straordinario sacerdote riuscì a donare alla sua Viterbo per oltre settant’anni. Migliaia di ragazzi si formarono all’oratorio di San Leonardo, innumerevoli fili di un prezioso tessuto di amicizia e di solidarietà. La vita li ha poi dispersi e allontanati, ma c’è qualcuno che, pazientemente, ha ricercato questi fili e li ha riannodati di nuovo, avvalendosi anche delle nuove tecnologie. Quel qualcuno si chiama Aldo Marinelli, ex ragazzo di San Leonardo, che oggi abbiamo incontrato e che ci ha raccontato la sua esperienza.

«Ero entrato in possesso di molte fotografie che ritraevano i ragazzi di don Alceste», esordisce Marinelli, romano di origine. «Alla morte del sacerdote, nel 1974, iniziò il declino per la parrocchia. Tutto venne smantellato e disperso. Io cercavo di dare una mano come potevo a chi era rimasto, e in cambio ricevevo le foto, molte delle quali erano state un tempo incorniciate e appese nei vari ambienti dell’oratorio. Altre mi sono arrivate in seguito. Ad un certo punto mi sono domandato che fine avessero fatto tutti quei ragazzi ritratti, se vivessero ancora a Viterbo, qual era stato il loro destino. Così, anche grazie a Facebook, sono riuscito a rintracciarne più di cento. Li ho contattati, ci siamo sentiti, e abbiamo detto: vogliamo fare una rimpatriata?». Nel 2006 Marinelli riesce ad organizzare un grande incontro. «Arrivarono con le loro famiglie al seguito. Fu una gioia esplosiva: con molti ci eravamo visti per l’ultima volta più di cinquant’anni prima! Abbracci, pacche sulle spalle, e un fiume inarrestabile di ricordi… Una serata indimenticabile che mi fece capire che non doveva rimanere un’esperienza isolata». Così per quattordici anni gli ex ragazzi si sono incontrati una volta l’anno, non soltanto per un’occasione conviviale, ma anche per fare cultura. «Tra i ragazzi c’è chi scrive poesie in dialetto viterbese, e abbiamo passato giornate indimenticabili. Tutto questo fino al 2020: l’avvento della pandemia con le sue restrizioni ha interrotto la consuetudine». Per non perdere i contatti con gli altri, Marinelli ha creato una pagina Facebook, “I ragazzi di San Leonardo – con Don Alceste Grandori”, sulla quale continua a pubblicare testi, video e quelle foto che li ritraggono bambini. Per alleviare la nostalgia e in attesa di poter tornare ad incontrarsi di nuovo. Abbracciarsi di nuovo. «Magari l’otto dicembre, una giornata particolare perché era la chiusura delle attività, c’era una bella riunione in cui si faceva il resoconto di tutto l’anno e parlava don Alceste. Quest’anno se ce la facciamo organizziamo qualcosa per quella data. E nel 2024, quando cadranno i cinquant’anni dalla sua morte, sto pensando di organizzare qualcosa di bello. Se ci arriviamo!».

Ma chi è stato don Alceste Grandori e qual è stato l’impatto che ha avuto sulla gioventù viterbese? «Potremmo paragonarlo ad una stella cometa. Per almeno tre generazioni don Alceste è stato una guida per i ragazzi viterbesi e per le loro famiglie. Un maestro di vita. Non si accontentava di fare il sacerdote e basta: fin dall’inizio aveva in mente il suo progetto di dedicarsi espressamente all’educazione dei ragazzi, di stimolare in loro l’interesse verso la religione attraverso la socializzazione e l’intrattenimento. E la bellissima ma piccola chiesa del Gonfalone, che gli era stata inizialmente assegnata ai primi del Novecento, gli andava stretta. Così, grazie al sostegno del padre spirituale don Pietro La Fontaine, patriarca di Venezia, ottenne il complesso di San Leonardo: la chiesetta, il campo, il fontanile. Piano piano, con le offerte dei benefattori, con i guadagni della tipografia che aveva creato, con la vendita dei libri che scriveva, creò il complesso e consolidò la comunità che lo viveva». Aldo Marinelli nasce a Roma, ma da bambino lui e la sorellina si trasferiscono con i genitori a Viterbo. «Abitavamo in via San Pietro, che allora era vivace e piena di negozi. Ci conoscevamo tutti, c’era amicizia e solidarietà. Come prima cosa i miei chiesero ai nonni quale fosse la parrocchia migliore dove mandare noi bambini. I nonni risposero senza esitazione, San Leonardo! Noi rappresentavamo già la terza generazione che si formava lì. Per decenni l’oratorio è stato un riferimento per tutti, e una sicurezza per le famiglie. Non soltanto quelle del quartiere, ma anche di fuori».

Fedele alla sua idea di sempre, don Alceste predispose sale in cui i ragazzi potessero giocare e fare lavoretti, campetti spaziosi, un teatro e un cinema, un giornalino di parrocchia al ciclostile. Organizzava escursioni e passeggiate in treno e a piedi, coadiuvato da collaboratori insostituibili come Zefferino Bentivoglio e le Signorine catechiste. L’intrattenimento era sapientemente miscelato alle lezioni di catechismo e alla liturgia. «Il campo di calcio era gratis, ma se volevi andare al cinema dovevi prima andare a messa, dove ti veniva dato il biglietto. Chi faceva il chierichetto veniva rimunerato con piccole somme. Era un incentivo, in un periodo in cui la fame ancora imperversava. Se andavi a messa ti veniva dato un panino, con dentro un “formaggino” di cioccolata… altrimenti chi lo vedeva mai? Stavi a messa e intanto pensavi a quella cioccolata che ti stava aspettando! Ma le parole di don Alceste volavano nella chiesa, e in qualche modo misterioso ci sono entrate dentro, formandoci per la vita». Poche regole, ma ferree, come il divieto di parolacce o la rigida divisione tra ragazzi e ragazze, durante la messa e fuori. «Eravamo sempre o solo maschi o solo femmine, anche quando recitavamo. Non esisteva la possibilità di mescolarci. Così, quando fummo più grandicelli, ci fu qualche fuga verso qualche parrocchia… “più morbida”», sorride Marinelli. «Siamo stati una generazione fortunatissima, perché crescere in questo ambiente ci ha regalato valori che abbiamo trasmesso ai nostri figli e che cerchiamo di trasmettere oggi ai nostri nipoti. Le semplici adunanze già erano motivo di emancipazione. Recitando nel teatro della parrocchia vincevamo timidezza ed insicurezze. Imparammo il significato del rispetto per l’altro, l’amore per il prossimo», conclude Aldo. «Riproponibile un’esperienza del genere? Forse, a partire dagli oratori che già ci sono. Però noi non avevamo niente, e oggi i ragazzi hanno tutto. Noi avevamo fame, e il panino era un incentivo per andare a sentire la messa. Cosa gli dovresti dare oggi per andare a sentire qualcosa a cui sono refrattari – ma che poi rimane? Come li attrai? Bisognerebbe inventarsi qualcosa che li stimola, che li interessa, per poterli far stare lì ad ascoltare. È la difficoltà di adesso. Noi siamo stati prede facili per don Alceste: quello che aveva creato ci bastava e ci stimolava a seguirlo. Quell’esperienza è forse irripetibile».

https://www.facebook.com/iragazzidis.leonardocondonalcestegrandori

 

 

 

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