Gianluca Braconcini, storia del barbiere e dell’arte di tagliare barba e capelli

Donatella Agostini

Dalla storica bottega di barbiere di Gianluca Braconcini lo sguardo spazia su tutta piazza Martiri d’Ungheria e accarezza le torri antiche del centro storico. Siamo a San Faustino, il quartiere viterbese a più forte presenza multietnica. Nella vetrina, antichi “ferri del mestiere” dell’arte della barberia: arricciabaffi, pettini, rasoi. «Sono quasi tutti attrezzi di mio padre, barbiere prima di me. Rappresentano la tradizione di famiglia, l’educazione che ho avuto, che mi sforzo di tramandare ai miei figli.
Il più grande, Lorenzo, lavora già con me». Braconcini, classe 1965, ha un piede ancorato nella bellezza delle nostre tradizioni del passato, e un altro ben piantato nel presente della comunicazione social: dalle pagine di Facebook infatti, Gianluca ama pubblicare seguitissimi post di immagini, aneddoti, storie del tempo passato di Viterbo e soprattutto parole e modi di dire in dialetto.
Le sue “Lizzioni de Vetorbése” sono un irresistibile ritorno al dialetto dei nostri genitori e soprattutto dei nostri nonni, un salto nel tempo in cui la vita era più semplice e vera, e Viterbo era una cittadina a forte vocazione agricola: «”Capostorno”: capogiro, stordimento. “Ntògna, tène fèrmo ‘sto fijo chi mi stà a fà vinì ‘l capostorno!”. Immagini seppiate e vintage di un tempo ormai scomparso sono le sue foto in “Come Adèromo”: «La maggior parte sono cartoline vecchie che ho a casa. Ne ho un centinaio. Da piccolo mettevo via le mancette e andavo al negozio Il Profferlo di Selvaggini a comprarle. Più tardi, quando facevo l’università a Roma, mi fermavo nei mercatini e le prendevo a due soldi. Tre, cinquemila lire. Le stesse ora le paghi cinquanta euro. Le fotografo e le metto su Facebook». Gianluca pubblica vedute delle fontane, delle nostre piazze, familiari eppure tanto differenti. Ma anche vedute d’interni del dopoguerra, di case povere ma dignitose, con i panni stesi ad asciugare sulla stufa economica. Foto del mercato della frutta e della verdura, perché «le bricòcole, ‘l pollàstro, l’ovaròle, le ròcchie e ‘l baffo si compravano in piazza e i contadini il sabato venivano a Viterbo a far la spesa». Mentre nella rubrica “Le Brifàcole dil Vellàno Ricco”, Braconcini ci racconta il significato di antichi proverbi contadini viterbesi. “Quanno la Palanzana mette ‘l cappello, curréte vetorbése cu l’ombrello”: quando le nuvole coprono la cima della Palanzana, è in arrivo la pioggia. «Fin da piccoletto ho avuto la passione per la storia di Viterbo, gli aneddoti», ci racconta. «Alle elementari il maestro ci fece fare delle ricerche su Viterbo. Qui vicino c’era l’Ente del Turismo e ricordo che quelli che ci lavoravano mi portavano su i libri. Qualcuno che ripuliva le cantine me ne portava altri, che altrimenti sarebbero andati al macero. E poi i racconti della gente, le ricerche in biblioteca. È nata ‘sta passione. E mi diletto a scrivere queste cose». E i commenti sotto i suoi post narrano di viterbesi che improvvisamente ricordano immagini e modi di dire sepolti nella memoria e che lo ringraziano per questo. «Da parte di mia madre erano agricoltori, e parlavano per proverbi, che contenevano tutta una filosofia contadina fatta di usi, di tradizioni, di meteorologia semplice. Da bambino ascoltavo parlare i miei nonni e annotavo i loro buffi modi di dire. Una decina di anni fa ho pubblicato una raccolta di proverbi contadini e di usi della campagna». E anche la bottega di barbiere è da sempre un luogo privilegiato per raccogliere confidenze e ricordi. «Qui a bottega capita ancora gente anziana che ti racconta gli aneddoti sulla città, le curiosità. Ti racconta del tempo di guerra e delle situazioni difficili che ha vissuto. E allora le scrivo». Sui libri, ma anche su Facebook, riuscendo a raggiungere in modo immediato ed efficace un gran numero di persone. «Mi sa una cosa “gajarda”. E penso che sia un’operazione importante. Noi siamo le persone che siamo grazie a quello che hanno vissuto i nostri avi. Attraverso di noi certe cose si mantengono, si tramandano, si conservano. Mio nonno era del 1911, mi raccontava il progresso a cui aveva assistito, dalla radio al razzo sulla luna. Mi raccontava di un mondo diverso. Oggi un ragazzino di dieci anni ha dei nonni giovani, quali storie possono raccontargli? Quali filastrocche antiche possono cantargli? Man mano che andiamo avanti la cultura dei bisnonni si perde».
E poi il nostro dialetto, quello originale, ormai confinato tra le mura suggestive del quartiere di Pianoscarano, parlato ormai da pochissimi anziani. Gianluca ci mostra un curioso vocabolario italiano-viterbese, che raccoglie termini e modi di dire ormai sconosciuti ai più. «Qui da noi si sono succedute una marea di popolazioni», spiega. «C’è stata la dominazione francese, ci sono stati gli svevi, i longobardi. Le popolazioni che sono state qui per tanto tempo si sono mescolate con i viterbesi, portando nuove parole. Siamo sempre stati un luogo di passaggio, con la Cassia che ci attraversa. Il nostro dialetto è un miscuglio di lingue, pieno di parole “strane”. Una volta, il passato remoto del verbo essere da noi si coniugava “adèro, adèri, adèremo”. Era normale. Col dopoguerra, con la voglia di dimenticare e di riemergere, tutto è cambiato. Parlare in dialetto è sembrata una cosa brutta. Un rivelatore di scarsa istruzione». Mentre in altre parti d’Italia si assiste ad una compresenza quasi alla pari del dialetto con l’italiano, da noi si è preferito dimenticarlo, e lasciarlo appannaggio dei poeti dialettali. «Invece, il viterbese andrebbe rivalutato e non represso. Quello che scrivo io è il dialetto vero di Viterbo che se parlava una volta a casa mia. Poi la mi’ madre “s’encazzava” perché diceva che non dovevo parlare in quel modo», continua sorridendo Braconcini. «Oggi se qualcuno parlasse in viterbese stretto, la gente “lo prenderebbe pe’ zuccarone”, per una persona ignorante. Invece è giusto fare il processo inverso. I ragazzi viterbesi di oggi sono come sradicati dal punto di vista linguistico. Perché è giusto tramandare il dialetto? Perché secondo me è una lingua che fa parte di te, delle tue tradizioni, delle tue radici. È la tua stessa cultura. Andrebbe valorizzato e fatto conoscere, soprattutto nelle scuole. Diverse volte sono stato chiamato per fare delle lezioni di viterbese nelle scuole. Con gli alunni abbiamo fatto un giro di Piano Scarano e ho parlato loro del quartiere dal punto di vista storico e popolare, usando proprio il dialetto. I ragazzini sono curiosi, non hanno pregiudizi, e imparano alla svelta». Nel 2017 è stato indetto un concorso di poesia in dialetto viterbese tra le scuole elementari del capoluogo: segno che il trend tra i docenti è proprio quello di una riscoperta delle nostre radici linguistiche.
Intanto, Gianluca Braconcini, con il suo circolo culturale “Il Quadrante”, in collaborazione con la Pro Ferento, ha organizzato per domenica 14 ottobre una caccia al tesoro storica per le vie di Viterbo. Seguendo gli indizi messi a disposizione delle squadre, i partecipanti avranno la possibilità di conoscere meglio i luoghi storici della città: un modo divertente di insegnare la nostra storia. Sul fronte editoriale, Gianluca sta per dare alle stampe un libro sulla coltivazione della canapa a Viterbo e i lavori ad essa collegati. «Lo scotolatore, il cordaio, la tessitrice. Tutto un microcosmo che era legato alla canapa, scomparso con l’avvento delle fibre artificiali. ‘Sto mondo è finito però se ti capita di andare al ponte di Paradosso, al frantoio di Matteucci, quello fa ancora i fiscoli a mano, quei dischi di paglia intrecciati che si mettono per schiacciare la pasta di olive». Perché il mondo di una volta, che tante volte rimpiangiamo, forse si è soltanto ritirato sotto la superficie della modernità. Sta lì che aspetta, e può essere ritrovato. Da chi è abbastanza attento per farlo. Da chi ci mette amore.
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