Tuscia in pillole. Gesù di Viterbo

di Vincenzo Ceniti*

“Adero fijarello/e attaccato ma la mano/de la matre mia/annavo a recità ‘l sermone/ma la Grotticella/’na chiesetta piccola e bella/mesta ma lassù/davante l’ojo lavato.

E’ la prima strofa di una poesia dialettale sul Natale scritta da Rosario Scipio negli anni Sessanta,  intrisa di semplicità e sentimento secondo il copione del tempo, in una Viterbo che non c’è più, quando la città era raccolta tra le mura castellane, si andava alla Palanzana a fare il vellutino per il presepio, in piazza delle Erbe sostavano le carrozzelle, non si conoscevano supermercati, cellulari e apericena, la messa di Mezzanotte era affollata di fedeli, c’era il sole d’estate  e la neve d’inverno,  il prosciutto era più saporito, i dolci di Natale si facevano in casa, si andava in Seicento, la televisione era in bianco e nero, le sale cinematografiche alla domenica erano affollate,  si svolgevano più processioni, si mangiavano le caldarroste di Pizzeccacio, ci si domandava cosa fosse il Concilio Vaticano II,  il Gran Caffè Schenardi era il punto di riferimento della città, si facevano i comizi in piazza del Plebiscito, per la Befana si mettevano agli incroci delle strade accanto alle pedane spartitraffico (piazza del Plebiscito e la “Svolta”) panettoni, bottiglie di spumanti, torroni giocattoli ed altro per i vigili urbani.

La sera della Vigilia la cucina era presidiata da mamme, nuore e nonne impegnate fin dal mattino  a preparare il “Cenone”. Intorno alle ore 20/21 tutti a tavola col nonno in testa e i bambini da una parte a fare congetture sui regali del Bambino Gesù o di Babbo Natale già pronti sotto l’albero. Sala da pranzo vistosamente addobbata. Tovaglie, piatti e bicchieri riesumati dal vecchio buffet per fare bella figura. Le sedie venivano rinforzate con quelle della cucina. La recita del sermone di Natale spettava al più piccolo.

Un pensiero al Bambinello che sta per nascere e recita della lettera di Natale piena di propositi e promesse scritta sempre dal più piccolo e messa sotto il piatto della mamma o del papà. Finalmente  il bacile fumante di  linguine al tonno. A seguire, pasta e ceci, baccalà in umido e arrosto,  anguilla del lago di Bolsena, frittura mare-lago, broccoli lessi conditi con aglio, olio, sale e limone, frittelle di broccolo,  maccheroni con le noci,  torrone e pangiallo regolarmente casareccio con le “nocchie” dei Cimini. Sui vini la confusione più totale  tra quelli di cantina e quelli griffati. Il mal di testa della digestione passava subito dopo i quattro passi all’aperto verso la chiesa parrocchiale per la Messa di Mezzanotte.

Non era ancora diffusa  la moda dei presepi viventi che si affermeranno  negli anni successivi con  capofila Corchiano pronta ad immolare il suo centro storico per stalle, capanne, pastori, pecore, ruscello, botteghe, osteria, fuochi col paiolo ed altro. Molti invece i presepi tradizionali nelle varie chiese, merito di frati, suore, parroci, catechisti, volontari.  Quello dei Cappuccini si intravedeva da una finestrella che si apriva nella prima cappella di destra con pupazzetti in gesso e lo specchio per ampliare la veduta. Tradizionali ed artistici quelli di San Francesco (nel transetto destro), di San Faustino che era permanente, di San Pietro del Castagno, di Sant’Angelo in Spatha, degli Agostiniani alla Trinità, di Santa Maria Nuova ed altri.

La visita ai presepi avveniva di solito nel primo pomeriggio del giorno di Natale. In alternativa c’erano i film in bianco e nero nei cinema Genio, Corso, Lux, Metropolitan e Auditorium. Ma si andava anche a casa di parenti e amici per giocare a carte (ramino, mercante in fiera, sette e mezzo) e a tombola con numeri segnati da fagioli rinsecchiti. Diffusa la tradizione, nel declamare i numeri, di far ricorso ad una miriade di allusioni che cambiavano di casa in casa del tipo: 3 il “cricco”, 44 le “quaqquarelle”, 19  l’”ubriacone”,  27 paganino, a  parte i classici  22 le carrozzette, 47 morto che parla, 77 le gambe delle donne, 90 la paura e via dicendo. Nella cena di Natale si facevano largo gli avanzi del pranzo peraltro ancorato allo spartito tradizionale: tortellini in brodo di cappone, fettuccine al “lansagnolo” con ragù, cotolette d’agnello fritte-panate, agnello arrosto con patate e dolci a volontà.

In quegli anni Sessanta si iniziava a parlare del Natale dopo  l’Immacolata, a differenza di oggi in cui panettoni e torroni si fanno vedere nei supermercati dalla fine di Ottobre. Alle Poste confluivano sacchi di lettere e cartoline di auguri con disegni, foto e frasi personalizzate. WhatsApp ed email ancora nella mente del Bambinello.

Diffusa l’usanza di preparare cesti-regalo natalizi che venivano donati da chi doveva testimoniare un affetto o un ringraziamento: Più apprezzati quelli con viveri: olio extravergine, vini di qualità, salumi, tocchi di parmigiano ed altro.  Oggi si preferiscono altri modi di esternare queste attenzioni. C’erano meno organizzazioni sociali preposte a soccorrere i più bisognosi e la carità veniva gestita soprattutto dalle parrocchie. Più frequenti comunque le opere di solidarietà da parte di singole persone e famiglie.

Il turismo natalizio era praticamente sconosciuto, al contrario di oggi che si approfitta delle vacanze per fine settimana in Italia e all’estero anche nelle feste “comandate”.  Nessuno si sarebbe mai sognato di trascorrere il Natale ai Caraibi o a Parigi. L’idea di fondo in quegli anni era il riposo, l’occasione di rivedere i parenti, il piacere di stare in casa e di mangiare di più. .

Le “pillole” e chi le scrive vi augurano Buon Natale, ma davvero buono!

presepe
Presepio della chiesa di San Francesco (foto di Silvio Cappelli)

 

Nella foto cover doni di Natale ai Vigili Urbani (foto di Mauro Galeotti)

 

 

L’autore*

ceniti

Console di Viterbo del Touring Club Italiano. Direttore per oltre trent’anni dell’Ente Provinciale per il Turismo di Viterbo (poi Apt). È autore di varie monografie sul turismo e di articoli per riviste e quotidiani. Collabora con organismi e associazioni per iniziative promo-culturali. Un grande conoscitore della Tuscia.

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