Tobia Calevi: la mia Viterbo, il respiro del cinema, la chance per il futuro poi la pandemia

di Maria Latizia Casciani

Tobia Calevi, classe 1992,  nato a Roma da madre veneziana e padre viterbese. E’ cresciuto a Viterbo con i nonni paterni, mentre i genitori, che lavoravano nella produzione cinematografica, erano via per lavoro. Il respiro del cinema è maturato con lui mentre il suo percorso di crescita delineava le varie tappe. Si è diplomato al Liceo Ruffini, quindi si è iscritto alla facoltà di Psicologia della Sapienza di Roma, lasciandola dopo un semestre, scegliendo la  facoltà di “Arti e scienze dello spettacolo”, sempre a Roma. Supererà poi  le selezioni per la “Scuola Nazionale di Cinema”, nel settore “Produzione”, cosa che gli ha permesso di conoscere professionisti e di fare le prime esperienze sul set. Dopo il diploma, grazie al bando “Torno Subito” della Regione Lazio, ha seguito il master in “Management e gestione d’impresa cinematografica” alla “24Ore Business School” di Milano, approfondendo gli aspetti economico/finanziari del mondo del cinema. Si delinea un percorso che lo vede in uno stage di 5 mesi in “Kimera Film”, poi nella  produzione di “Medici Masters of Florence”, seconda stagione, nella terza, lavorerà come segretario di produzione. Il legame con Viterbo lo ritrova partecipando alla gestione del festival internazionale di teatro “Quartieri dell’Arte” ideato dal drammaturgo Gian Maria Cervo, di cui è stato assistente di produzione per il film “Benedetta” di Paul Verhoeven. Ha poi lavorato per due serie tv: “Devils” e “Bella da Morire” e per il film di Sydney Sibilia, “L’incredibile storia dell’Isola delle Rose”, prodotto da Netflix, in cui ha affiancato l’organizzatore generale dello sviluppo del budget. Ha organizzato le riprese tra Roma, Bologna e Malta (dove è stata ricostruita l’isola a grandezza naturale dentro un’enorme piscina). Il 2020 si prospettava per lui come un anno lanciatissimo: ha collaborato allo sviluppo dei piani di lavorazione e al budget per due serie tv e per il nuovo film di Gabriele Salvatores, ma è arrivato il COVID-19 a ribaltare il mondo già sottosopra e tutto è stato rimandato o cancellato, costringendo a ripensare tutto, a scompigliare ogni certezza.

E allora da dove cominciare? Senza dubbio la prima necessità è lo stimolo che a Tobia Calevi non manca e lo ritroviamo nella sua narrazione.

La scelta di lavorare nel mondo del cinema è stata una naturale conseguenza del fatto che i suoi genitori si sono occupati a lungo di produzione cinematografica, oppure questa decisione ha richiesto tempo e riflessione, anche passando attraverso una necessaria diversificazione?

Durante il liceo avevo già sviluppato una grande passione per il cinema, ma poi l’ho tradita: mi sono iscritto a una facoltà che non amavo, proprio perché non volevo ammettere di voler fare lo stesso lavoro dei miei genitori.

Ci sono voluti due anni e due cambi di rotta per accettare questa strada. Mentirei a me stesso, però, se pensassi che i racconti delle strampalate, ma emozionanti, avventure raccontate a casa, non abbiano agito su di me come messaggio subliminale. I miei non mi hanno spinto a fare questo lavoro (non ho quasi mai lavorato con loro), ma non mi hanno nemmeno ostacolato.

Il lockdown, che ci ha tenuti prigionieri in casa per settimane, ha pesato su tutta l’economia, ma in particolare sulla produzione culturale, che stenta ancora a ripartire: teatro, musica, cinema hanno subito un impatto pesantissimo. Come pensa – o spera – che si evolverà la situazione?

Avevo in programma due progetti per il 2020: uno è stato rimandato per problemi assicurativi, l’altro è saltato.

I produttori però hanno fretta di tornare a girare, altrimenti non avrebbero nuovi prodotti da vendere. I lavoratori dello spettacolo sono rimasti fermi per mesi con pochi ammortizzatori sociali o privi di essi. C’è una strana sensazione nell’aria: da una parte l’entusiasmo di tornare a lavorare, dall’altra la paura di farlo senza la dovuta cautela.

Stiamo facendo corsi di aggiornamento sui protocolli di sicurezza e chi torna a lavorare è sottoposto a test sierologici e tamponi. I budget aumentano, le paghe diminuiscono.

Come è stato tornare a Viterbo per lavoro, all’interno di una produzione televisiva? E’ cambiato lo sguardo sulla città, rispetto a prima?

Una bomba! Giocavo in casa. Una buona parte del mio lavoro consiste nel risolvere problemi e farlo in una città meno isterica di Roma è più facile; farlo nella città in cui sono cresciuto è molto più facile. Ho a disposizione più risorse e conoscenze. Comunque, non ero l’unico viterbese della produzione. Con loro, ci capivamo al volo, pur non essendo cresciuti insieme. Ho guadagnato 10.000 punti, agli occhi dei superiori, durante le riprese nella Tuscia.

Essere dietro alla produzione di un film o guardarlo seduto comodo su una poltrona del cinema. Tra queste due dimensioni, ognuna ha una sua peculiarità e lati positivi e/o negativi. Quali le differenze, per lei?

Sono due esperienze completamente differenti. A volte mi stupisco ancora di quanti giorni servano per girare una scena che il pubblico vedrà per pochi secondi. Il caso più eclatante che mi sia capitato è stato sul set di “007 Spectre”: abbiamo girato per 3 settimane la scena dell’inseguimento lungo gli argini del Tevere: al cinema durava 6 minuti scarsi. Lavorare nella produzione ha un po’ rovinato il mio gusto di spettatore: guardando un film, mi trovo a pormi domande su come siano stati risolti certi problemi di realizzazione.

 

La mia città (…) ha il cantuccio a me fatto” (U. Saba).

Qual è stato l’angolo di Viterbo che ha rappresentato da sempre per lei un punto di osservazione privilegiato o il luogo protettivo per eccellenza?

Ho imparato tardi ad amare Viterbo e la Tuscia, che ho trovato un po’ “stretti” finché non ho cominciato a vedere altre parti di mondo e mi sono reso conto che la pace che si trova qui è merce rara. Per chi, come me, ama la natura, la Tuscia è fantastica. Non è dunque facile scegliere un luogo in particolare. Ho un debole per il Lago di Vico. La strada che va da S. Martino a Ronciglione è quella che percorro per andare a Roma e per tornare. Quando supero Ronciglione e sbuca il lago, comincio già a sentire l’aria di casa. Su di me ha lo stesso effetto del fischietto sui cani di Pavlov. In ogni stagione regala una sensazione diversa. L’alba è il momento che preferisco. Di notte ho sempre il timore di incontrare un cinghiale, ma quel lungo tratto di natura incontaminata mi mette istantaneamente a mio agio.

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