Stefano Polacchi: vi spiego io come si deve mangiare

di Arnaldo Sassi

Diceva Oscar Wilde: “A tavola perdonerei chiunque, anche i miei parenti”. Già, perché il cibo è una parte essenziale della nostra vita. Irrinunciabile. Per più di un motivo: intanto serve a sostentarci; ma è anche uno dei piaceri più gradevoli per il palato. Che non può non incidere anche sul buon umore, soprattutto quando le pietanze sono gustose.

Non tutti sanno però che al giorno d’oggi mangiar bene impone, oltre alla naturale passione, anche quel minimo d01i conoscenza e di informazione che evita di commettere errori, anche grossolani.

Tant’è che anche questo settore, come altri, ha prodotto i suoi esperti. Uno di questi si chiama Stefano Polacchi, viterbese, 60 anni, giornalista del Gambero Rosso, la notissima rivista che si occupa di nutrizione e dintorni.

Stefano è figlio di quell’avvocato Marcello Polacchi, per tanti anni principe del foro viterbese e presidente dell’amministrazione provinciale dal 1977 al 1982. Lui però, dopo aver ottenuto la laurea in giurisprudenza, ha deciso di percorrere una strada diversa: quella del giornalismo. Prima all’Unità; poi, dopo la sua chiusura definitiva, al Gambero Rosso, dove finalmente ha potuto dare libero sfogo alla sua passione: quella per la nutrizione e la qualità del cibo.

“Sono nato a Civita Castellana. Ma quando avevo 9 anni la mia famiglia si trasferì a Viterbo. Insomma, sono passato dalla città dei cessi alla città dei Papi” dice con una battuta.

E allora andiamo subito a sodo: come è nata questa passione per l’enogastronomia?

“Mah, già quando lavoravo all’Unità da parte mia c’era attenzione per questi temi, tanto è vero che curavo una piccola rubrica. Poi, quando il giornale ha chiuso, pensavo di fare l’avvocato. Ma nel frattempo avevo allacciato contatti con colleghi che lavoravano al Gambero Rosso. Ho cominciato a fare piccole cose. Poi il percorso è andato avanti ed ora eccomi qui”.

Sì, ma forse dietro c’è dell’altro…

“Beh, sì. All’Unità mi annoiavo, perché era un giornale costruito soprattutto sugli intrighi di palazzo, fatto soprattutto servendosi delle agenzie. Da quest’altra parte invece ho trovato quello che era il giornalismo di una volta: niente agenzie, niente televisione. Bisognava pedalare, andare sui posti e raccontare storie e passioni. Insomma, lo stesso approccio che avevo avuto anni prima con la cronaca nera. E’ stato un passaggio facile, perché ho cominciato a divertirmi sul serio”.

E allora entriamo in argomento. Oggi, ad esempio, si guarda molto allo slow food…

“Sì. Lo slow food nasce in contrasto con il fast food, ovvero con il classico mordi e fuggi. Certo, nello slow food c’è un elemento conviviale, che è quello dello stare insieme. Ma ci deve essere anche dell’altro, ossia la conoscenza di ciò che stai mangiando, che ti deve portare a una scelta consapevole. Sapere la storia di quel cibo e di come è stato prodotto. Devo dire che in questi ultimi tempi ho notato che anche diverse catene di fast food si stanno adeguando con un’offerta di ristorazione diversa. I famosi Mc Donald’s sono diventati anche luoghi di aggregazione, dove è possibile organizzare anche feste ed eventi. E questa è una piccola vittoria dello slow food”.

E sulla qualità del prodotto cosa c’è da dire?

“Dico che bisogna conoscere quello che si mangia, l’origine del prodotto e la sua filiera. Oggi c’è un lato positivo: catene come Mc Donald’s e Burger King si stanno orientando su prodotti di origine italiana e sono molto attente al marchio dop. Certo, la politica potrebbe fare qualcosa in più per quanto riguarda le etichette”.

 A proposito di etichette…

“Purtroppo la vita di oggi è caotica. Si va troppo di fretta. Invece nella scelta del cibo sarebbe necessario perderci un po’ di tempo. Vede, fino a dopo la seconda guerra mondiale il mangiare era uno dei pensieri centrali delle famiglie e occupava il 50 o il 60 per cento del reddito. Oggi in Europa si è ridotto al 15 e in America addirittura al 12. E’ profondamente cambiato lo stile di vita ed è diminuito il tempo che si dedica all’attenzione sul cibo. Invece noi siamo quello che mangiamo, ma siamo anche quello che pensiamo. Però, se non mangiamo non pensiamo”.

Okay. E allora, qual è il segreto del mangiar bene?

“Il mio approccio alla vita non è mai stato ideologico. Secondo me c’è spazio per Mc Donald’s, per i vegetariani, per i vegani, per i carnivori. E anche per chi ha problemi alimentari, come i celiaci, o i diabetici. Ognuno deve gestire il proprio cibo a modo suo, come si sente di farlo e secondo le proprie esigenze”.

Però i vegani sono difficili da comprendere. Mangiare un uovo o una fetta di formaggio non può essere una cosa disdicevole…

“Beh, lì esiste un fattore ideologico: l’animale non deve essere fatto vivere come elemento di reddito. E gli allevamenti intensivi, sia di polli, che di maiali, o addirittura di mucche, ne sono una triste testimonianza”.

Ma c’è una ricetta giusta per risolvere il problema?

“Ci potrebbe essere la classica via di mezzo. Abolire gli allevamenti intensivi sarebbe una scelta di etica e di civiltà. L’economia può essere cambiata, ma va guidata e stimolata”.

Però così i tempi di produzione si allungano e si dice che tra pochi anni il cibo non basterà per tutti…

“Questo è un discorso molto relativo. Basterebbe cambiare il tipo di organizzazione. Teniamo presente che noi oggi buttiamo nella spazzatura il 30/35 per cento di avanzi. L’Italia dovrebbe puntare su alcune specificità. Se scegliesse di non avere più allevamenti intensivi certamente sconvolgerebbe il settore, ma potrebbe anche stimolarne l’economia e provocarne una sua evoluzione”.

Così però i prezzi aumenterebbero…

“Allora, facciamo l’esempio del pollo. Il consumatore può comperare il pollo cinese, vietnamita o italiano. E’ chiaro che a quel punto quello italiano costerebbe di più, ma sarebbe maggiore anche la qualità. Poi ognuno di noi è libero di scegliere”.

E allora parliamo di aziende produttrici e di ristoranti. Voi andate in giro per l’Italia a controllare?

“Intendiamoci, noi siamo un giornale. Quindi non diamo nessuna certificazione. I sopralluoghi però li facciamo a livello informativo per i nostri lettori. Sia alle aziende produttrici, raccontando i metodi di lavorazione del prodotto, sia a quelle di ristorazione”.

In forma anonima?

“Tendenzialmente sì. Ma ormai siamo abbastanza conosciuti. Quella che conta però, è l’onestà intellettuale. Si può vedere come funziona un ristorante anche se ci si conosce”.

Domanda finale: qual è il livello di ristorazione a Viterbo?

“Tendenzialmente buono, ma migliorabile. Fortunatamente non esiste una ristorazione turistica da battaglia, ma ci vorrebbe maggiore consapevolezza nell’uso della filiera corta, che qui è a portata di mano. C’è la possibilità di costruire un legame stretto tra agricoltura e ristorazione. Le cose bisogna andarle a cercare, non aspettare che te le portino”.

E coi prezzi come stiamo messi?

“Sono molto competitivi, ma manca la fascia alta. Le istituzioni dovrebbero accompagnare la ristorazione con iniziative agganciate ad altre manifestazioni. Credo che il Comune ci stia pensando, a cominciare dalla prima fiera del cibo della Tuscia che la Camera di Commercio organizzerà a fine settembre. Potrebbe essere un buon inizio di lavoro su questo fronte”.

Bene. Allora, buon appetito!

 

 

 

 

 

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