Roberto Bellucci, il vasaio del monte Bisenzio tra argille e chimere

di Paola Maruzzi

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In attesa che riparta in estate la campagna di scavi Bisenzio Project, coordinata da Andrea Babbi, e che sta puntando a riportare alla luce un sito archeologico dall’alto potenziale, andiamo a ripercorrere le tracce dell’antica Bisenzio con una guida autoctona sui generis: si tratta di Roberto Bellucci, vasaio autodidatta e cultore maniacale dell’artigianato etrusco tanto da riprodurlo in modo “filologico”.

Il suo laboratorio sorge a ridosso della necropoli sepolta della Palazzetta, una delle tante del territorio capodimontano, ed entravi è come viaggiare nel tempo.

La sfida di Bellucci, infatti, non è semplicemente quella di imitare il bucchero etrusco ma di far rivivere tecniche e gestualità antichissime. Per darne prova ci mostra la lucidatura della ceramica con una pietra rinvenuta nella tomba di un vasaio. “Tentativo dopo tentativo sono riuscito a recuperare piccoli segreti artigianali che ci danno una misura realistica di cosa significasse creare ceramiche nell’VII secolo – spiega –. Per esempio, ho scoperto che per tratteggiare con precisione le figure bisogna dipingere con il baffo di lepre, quello di nessun altro animale otterrebbe lo stesso risultato. Tutto ciò che uso per i miei manufatti ha un rapporto diretto e viscerale con queste terre: dall’argilla che depuro attraverso un lungo processo alle foglie secche del leccio il cui fumo, in fase di cottura, conferisce il tipico nero al bucchero etrusco”.

Con anni di esperienza, l’aderenza agli originali dei manufatti di Bellucci ha raggiunto livelli che, confessa lui stesso, “potrebbe ingannare anche l’occhio di un esperto”. Un tema picaresco, quello dei falsari d’autore, non estraneo alla Tuscia, come ha ben raccontato lo scorso anno la mostra “Fake” curata da Vittorio Sgarbi.

Bellucci puntualizza che, per chi nasce in territori imbevuti di storia, ispirarsi all’antico significa conoscere il vero, toccarlo con mano.

Il riferimento, neanche poi tanto velato, è al mondo dei tombaroli e agli anni d’oro dei profanatori abusivi “che venivano a squadre a scavare di notte. Negli anni Ottanta nelle campagne di Capodimonte era un continuo perforare con lo spido, il rampone utilizzato per sondare il sottosuolo. Alcuni hanno fatto fortuna vendendo illegalmente pezzi pregiati, un mercato che però oggi si è esaurito. Altri, come un tale soprannominato il Mago per via di presunti poteri sentitivi, hanno tentato imprese impossibili, come quella di iniziare a scavare un tunnel sotterraneo alle pendici del monte Bisenzio alla ricerca di tombe regali”.

È in questo contesto di speculazione selvaggia, di falsi intermediari e di faide tra tombaroli, che Bellucci scopre la sua sincera passione. “Da ragazzo mi sono imbattuto nello scavo fatto da alcuni tombaroli e mi sono ritrovato faccia a faccia con un aryballos, un tipico porta profumi. Ne sono rimasto affascinato, non riuscivo a togliermelo dalla testa. Da quel momento ho iniziato figurami le forme, a studiare la composizione dei materiali a manipolare l’argilla come se le mie mani fossero guidate da una forza misteriosa”.

Per Roberto c’è un posto, in particolare, dove il dialogo con la civiltà etrusca sembra fluire senza interruzioni ed è il monte Bisenzio, con la sua vista mozzafiato sul lago di Bolsena: “Qui vengo spesso per ammirare i colori dell’alba, per studiare le forme del territorio e ipotizzare come potesse apparire millenni fa. Dall’alto si possono vedere le tracce di un porto sommerso e i tetti degli abitati etruschi, quando evidentemente il livello dell’acqua era più basso. All’orizzonte ci sono ettari di necropoli mai violate. Su questa altura, tra vasche sacrificali e i giochi di luce del solstizio d’estate che accende l’antro di una cosiddetta piccionaia, è ancora possibile inciampare nella storia dimenticata dell’antica Bisenzio”.

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