Marco Ferri-Inter Artes: “Se l’arte alla fine ci salverà, dipende da noi”

di Donatella Agostini

ferri

Era il 1492, e mentre al di là dell’Atlantico Colombo scopriva il continente americano, un papa fuggiva frettolosamente da una Roma squassata dalla pestilenza e trovava rifugio in un appartato palazzetto in pietra di Viterbo. Nel 2022 l’antico palazzetto, situato al 36 di via della Volta Buia, rinnova la sua vocazione all’accoglienza con un abbraccio di mura solide e protettive, in un viaggio nel tempo in cui ritorna ad esercitare la sua azione salvifica: stavolta attraverso l’arte. Ci troviamo ad Inter Artes, uno spazio di incontro tra linguaggi artistici ideato da Barbara Aniello, storica dell’arte e musicologa. Pietra, legno, metallo, pezzi di arredamento retrò: tutto celebra su di sé, con orgoglio malcelato, le cicatrici del tempo trascorso. Un po’ ovunque spiccano, disposti con sapienza e perfettamente armonizzati con l’ambiente, i lavori di Marco Ferri, che inaugura questo spazio con la retrospettiva intitolata “Poiesis”, poesia. Nato a Tarquinia nel 1968, artista riconosciuto a livello nazionale, Marco Ferri ha esposto e collabora con diverse gallerie italiane. Alcune sue opere sono entrate a far parte della collezione di arte contemporanea della Banca d’Italia. E se con lui è d’obbligo parlare di arte, ci ritroveremo inaspettatamente a discorrere anche di tanto altro: di memoria collettiva, di sincerità, di parole, ma anche e soprattutto di poesia.
«La poesia è fondamentale. Perché vivere senza poesia… sarebbe come vivere senza amore. Come faresti? Non avrebbe senso niente: di quello che vedi, di quello che ti circonda. Non avrebbe senso alzarti la mattina. Cerco di renderla tangibile, trasformandola in un pezzo di pittura, di scultura, qualcosa che può essere visto e toccato», esordisce Ferri. L’accostamento tra i termini pittura e scultura non è casuale: i lavori di Marco hanno sempre spessore materico, valenza tridimensionale, sotteso invito ad andare in profondità e riuscire a percepire l’intangibile: azione che è alla portata di tutti. «Tanti anni fa ho iniziato un ciclo di lavori intitolato “Avevamo gli occhi belli”», racconta. «L’idea di vedere il mondo come quando eravamo bambini. Gli occhi belli ce li abbiamo avuti tutti, poi siamo cresciuti e abbiamo dimenticato di avere quello sguardo». Basterebbe dare a quella sensibilità il tempo necessario per riemergere dalle profondità dell’animo. «Se leggi una poesia distrattamente, l’hai letta davvero? Se passi davanti ad un quadro a righe, gli butti un’occhiata e dici, vabbè, bei colori, belle linee… ma non lo hai guardato veramente. Non è il modo giusto di intercettare quella poesia, quel concetto». Per questo l’epigrafe della sua mostra è “Per comprendere un’opera d’arte ci vuole una sedia”. «A differenza della musica, che ti dà il tempo di capirla con il riascolto, il quadro quel tempo non te lo dà: ti arriva all’improvviso. All’inizio non comprendi la cosa che ti colpisce di più, quella che entra e si ferma dentro di te, a fermentare. Le devi dare il tempo: per questo serve una sedia. Poi, se puoi tornare un’altra volta a rivederlo è meglio. Perché ogni giorno il tuo modo di vedere è diverso. Il linguaggio dell’arte è in continua metamorfosi e la sua universalità permette di scavalcare le epoche».
Ferri ricerca, attraverso l’utilizzo di diversi materiali – tela, vetro, ferro, ceramica, legno, fotografie, cera d’api – la possibilità di dare corpo a sentimenti ed emozioni, di tradurre la poesia «per quello che posso e riesco», creando opere screpolate, precocemente invecchiate, che suggeriscono il disfacimento della materia. «Tutto il mio lavoro è legato all’idea di memoria, non tanto quella personale, ma con la presunzione di parlare della memoria di tutti», afferma. Le linee verticali e orizzontali dei suoi lavori sono richiami architettonici, scultorei, suggestioni delle mura castellane del luogo natio, echi di epoche lontane creati volutamente dall’autore. «Provoco volutamente quella patina. So che l’acido reagisce sul ferro, che il ferro reagisce sulla tela e ne trae tonalità diverse… so che in qualche modo succederà qualcosa, ma non so come andrà a finire. È questo secondo me l’aspetto più interessante». Un processo creativo apparentemente incontrollabile. «Tutto è legato principalmente all’esigenza di fare qualcosa. Un’esigenza che a volte è come un malessere, una frenesia. Immagino un colore… comincio a lavorare dentro di me e mentre lo faccio lui comincia a lavorare su di me… ci provochiamo, l’uno con l’altro. Diventa piacevole quando ti rendi conto che mentre stai facendo qualcosa, quel qualcosa sta facendo te e ti riconosci. Sei quasi sulla buona strada». Un interscambio che dovrebbe avvenire poi tra l’opera e lo spettatore. «Mi chiedono, tu qui cosa vuoi dire? Fondamentalmente non voglio dire niente, però se tu ti riconosci in quel lavoro, se ci trovi qualcosa che minimamente ti assomiglia, in realtà ho già vinto. Io posso pure iniziarla, l’opera, ma quello che la finisce devi essere tu. Che la guardi, che ti ritrovi là dentro. Altrimenti diverrebbe una forma chiusa: invece dev’essere un’opera aperta, come quella teorizzata da Umberto Eco. E secondo me è anche il modo giusto di interpretare la poesia, che nasce là dove smettono le parole. Al di là c’è quella dimensione che trascende, a cui si cerca di dare forma: le parole arrivano fino ad un certo punto, poi c’è l’ineffabile. Allora sei costretto ad inventarlo, un linguaggio». Comunicare con un linguaggio astratto per raccontare di meno ed esprimere di più. «Sono cresciuto professionalmente sotto l’influsso morandiano e quello della figura classica per quanto riguarda la scultura. Poi ho dato un taglio netto con il figurativo». Per spiegare i motivi del suo approdo all’astrattismo, Ferri continua: «Ho fatto una serie di lavori utilizzando fotografie antiche, in bianco e nero, figure bellissime di donne e di uomini del passato. La prima cosa che ho fatto è stato cancellarne il viso. Perché è la prima cosa che vai a guardare: già lì ti crei la tua idea di quello che è raffigurato. Io invece volevo smettere di dare degli agganci, degli appigli… volevo l’antinarrativo». Una narrazione che non si servisse di parole, anche se le parole, pur non avendo valore totalmente esaustivo, sono per Ferri potenti vettori di suggestioni. I titoli che sceglie per i suoi lavori e per le mostre riflettono il suo gusto giocoso per l’ossimoro, per il paradosso, per l’artificio poetico. Non a caso, il sottotitolo alla retrospettiva “Poiesis” è “Versione integrale ridotta”… Un modo anche per non prendersi troppo sul serio. «La parola artista non so che vuol dire. Siamo dei privilegiati, facciamo cose interessanti, spero. Coltivo la terra dentro di me, la faccio fiorire. È questo il mio privilegio. Prendersi sul serio, perché? Se mi accorgo di “lavorare” smetto. E poi che vuol dire, ho fatto un’opera? Sto tentando di fare delle cose che mi permettono di avvicinarmi un po’ a quell’idea di poesia che ho. Ma sono tentativi, non sono opere. Ogni giorno faccio un tentativo diverso».
Marco Ferri ha un profilo che ricorda gli antichi Etruschi raffigurati sulle pitture murali delle necropoli. Vive e lavora nella sua Tarquinia: un borgo che lo ha plasmato per quello che è oggi e per le sue modalità espressive. «Le patine sui lavori vengono dalla bottega che ho fatto da ragazzo, quando realizzavo riproduzioni etrusche… modello l’argilla come quando da bambino giocavo nel laboratorio creato da Sebastian Matta… il territorio ti plasma, ma ti usa anche. Se fossi nato a Milano farei delle cose pulite, lisce, da design. Tarquinia ha una luce meravigliosa: ogni volta che vado altrove, mi rendo conto che non c’è quel tipo di luce lì. Ma dal punto di vista culturale… ci sarebbero tante sfaccettature da valorizzare. Bisognerebbe fare sistema, coinvolgere tutto il territorio, creare eventi che possano radicarsi… non aver paura di aprirsi, di accogliere. Tarquinia è piccola, a volte un po’ soffocante, ma poetica». Di nuovo la poesia, che presto arriverà allo spazio Inter Artes in una veste inedita: è in programma il 23 ottobre una degustazione sensoriale con Francesca Mordacchini Alfani, enologa e sommelier, che illustrerà i vini in base alle opere di Ferri, in quell’approccio sinestetico globale tra linguaggi artistici che l’ideatrice del progetto, Barbara Aniello, vorrebbe che risuonasse in questo luogo: vino come arte di descrivere, descrivere l’arte con il vino. E agli inizi di novembre, un concerto con violoncello e contrabbasso, ad abbinare musica ed immagini astratte, nel segno della poiesis. Marco Ferri ha appena terminato di esporre a Lugano e a Roma, e ha in programma esposizioni a Padova e a Milano. Un’ascesa indiscutibile, malgrado il suo processo creativo riguardi lui stesso e il suo mondo interiore, piuttosto che la società e il contemporaneo. «Se mi accorgo di essere bravo, smetto. Non può non essere così, altrimenti direi soltanto un mucchio di bugie». Uscendo da questo luogo incantato e senza tempo abbiamo modo di fargli ancora una domanda: Marco, l’arte ci può salvare? «Non è il compito suo, ma alla fine lo fa. Dipende dal modo in cui vediamo le cose. Il problema è che gli occhi belli ce li avevamo prima», conclude. «Non è una visione pessimista, tutt’altro, altrimenti non farei quello che faccio. Il sistema ci ha fatto dimenticare quanto è bella la poesia e l’arte. Se l’arte alla fine ci salverà, dipende da noi».

www.spaziointerartes.it

Foto: gc.lenses

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