Mario Matteucci, la storia secolare del frantoio oleario custodita nel Museo del Paradosso

di Donatella Agostini

Il ponte di Paradosso è una stretta di mano tra il cuore pulsante di Pianoscarano e il resto del centro storico di Viterbo. Un tempo scavalcava l’omonimo torrente, che oggi ha lasciato spazio a giardini e ad orti urbani. Il contrasto tra il grigio delle pietre e il verde rigoglioso delle piante è parte della magia unica dell’antico quartiere. Nei pressi del ponte di Paradosso vi è un frantoio, fondato quando Viterbo faceva ancora parte dello Stato Pontificio. Dopo centosessantacinque anni quel frantoio è ancora qui, a rammentarci la forza tranquilla e tenace delle tradizioni familiari. Il frantoio Paradosso è una vera macchina del tempo, in grado di riunire magicamente in sé l’insegnamento del passato e la modernità del presente, ed è impersonato dall’attuale titolare, Mario Matteucci, bisnipote del fondatore.

Zazzera bianca, voce sottile in contrasto all’energia degna di un ventenne, Mario porta in giro i suoi “ottantacinque anni finiti” con orgoglio. Con la soddisfazione di aver consacrato l’esistenza al suo lavoro – la sua passione – e di aver perpetuato la tradizione di famiglia. Con quello stesso orgoglio, Mario ha voluto rendere omaggio all’impresa familiare e all’intera arte olearia creando, nei locali adiacenti al frantoio, delle piccole aree museali aperte al pubblico, dove ha raccolto le testimonianze di quest’arte così antica e radicata nella nostra zona. È lui stesso ad accompagnarci nel percorso, che inizia con la visita ai moderni macchinari, ora a riposo. «Gli impianti sono moderni, ma la nostra filosofia non è cambiata: per ottenere l’olio non utilizziamo né acqua né calore», esordisce Matteucci. «La spremitura delle olive è a freddo, come si usava un tempo». Quella che anticamente era consuetudine, oggi è prassi raccomandata per ottenere un ottimo e salutare extravergine. «Non risparmio sulla qualità: quando faccio l’olio penso che lo sto facendo per me, per i miei figli, per i miei amici…». Varchiamo una porta e facciamo un salto indietro nel tempo: siamo in grotte di tufo, dove Mario ha ricreato l’antico frantoio del 1856. Attrezzature semplici, rustiche, affascinanti, tra le più antiche al mondo. I vetusti macchinari rilucono di un chiarore caldo di rame e ci raccontano di vite trascorse a produrre l’oro verde. «Le olive scendevano nel frantoio per mezzo di un’apertura praticata nel soffitto della grotta, poi venivano macinate. Quando erano ridotte in pasta venivano pressate, in modo da fare uscire il liquido, che poi veniva messo a decantare in appositi recipienti di rame. Dopo circa un’ora l’olio veniva in superficie separandosi dall’acqua, e veniva raccolto a sfioramento», racconta Mario. «Avevo sei anni, facevo la prima elementare. Mio padre, per non farmi bighellonare in giro, mi diceva: quando hai finito di fare i compiti scendi e aiuta qui».

Guardando lavorare il padre e il nonno, il piccolo Mario imparò tutti i segreti dell’olio. Dal nonno apprese anche a realizzare i fiscoli, una sorta di dischi intrecciati in fibra di cocco di origine antichissima, che a quei tempi si usavano per pressare la pasta di olive. Matteucci è oggi uno dei pochissimi artigiani al mondo in grado di realizzare i fiscoli a mano. «Facevo girare la corda di cocco intorno a delle ruote dentate, la intrecciavo e in pochi minuti le davo forma». Oggi i fiscoli in cocco non si usano più per produrre l’olio, ed è una delle poche concessioni alla modernità. Ma l’abilità dei Matteucci nel tessere la fibra di cocco ha permesso loro di raccogliere altre soddisfazioni: al frantoio infatti si cominciarono a realizzare anche cordami molto apprezzati. «Realizzavamo corde di varie misure, molto resistenti: per distruggere la fibra di cocco ci vuole il fuoco. Ne fabbricammo anche per le scenografie del film “L’armata Brancaleone”», continua Mario, mentre ci accompagna in altri locali in cui ha messo in mostra antichi attrezzi per la filatura. Alle pareti, fotografie in bianco e nero che ritraggono scene della Viterbo del dopoguerra, in cui la coltivazione delle fibre tessili era molto sviluppata: ragazzi e ragazze che girano le ruote di legno per la filatura. «Qui era tutta una filanda: ci ha lavorato mezza Viterbo». La bravura di Mario nell’intrecciare la fibra di cocco e realizzare i fiscoli diventò una seconda attività. «Un giorno, una signora di Milano si innamorò dei miei fiscoli e me ne chiese una ventina. Allora capii che quella lavorazione piaceva e cominciai a creare oggettistica in fibra di cocco». Matteucci ci accompagna tra scaffali dove sono esposti centinaia di oggetti originali e curiosi, tutti creati dalle sue sapienti mani con la sola fibra di cocco. «Per cinquant’anni li ho venduti nel negozio che avevo in piazza della Morte». Molti si ricorderanno dell’originale decorazione posta al di fuori del negozio: una palma da cocco con una scimmietta che saliva e scendeva. «Era molto amata dai bambini», ricorda Mario, che ha tenuto il negozio per decenni. Un’arte manuale preziosa che si potrebbe insegnare con profitto alle giovani generazioni.

La terza e ultima area museale ci fa piombare nel periodo più cupo della nostra storia recente. Mario ci mostra una raccolta di oggetti, trovati nella zona del Paradosso, che arrivano direttamente dalla seconda guerra mondiale: maschere antigas, zaini, bossoli di artiglieria, stoviglie, taniche tedesche e americane. «Viterbo è stata martoriata dai bombardamenti. E quelle grotte che avete visto prima erano rifugi, che comunicavano con altre grotte, con altre persone. Così, se si fosse scaricata la nostra potevamo rifugiarci in quella vicina, e viceversa». Ricordi ancora vividi, con l’immagine del suo babbo capo-rione, che se di notte vedeva una luce accesa nel quartiere, per evitare il bombardamento si precipitava sotto le finestre gridando di spegnerla. Frammenti di un passato tragico, dal quale la comunità intera è riuscita a strapparsi con il duro lavoro e con l’attaccamento alle proprie radici contadine.

Il museo del Paradosso, con le sue tre diramazioni, è una stretta di mano tra il presente e un passato rimasto appena sotto la superficie dell’oggi, ed è visitato annualmente da migliaia di visitatori e da scolaresche in visita. «Mi ero ritrovato con tutto questo antico materiale: qualcuno mi consigliò di disfarmene. Non ne ebbi il coraggio, ed ho avuto ragione», afferma Mario. «Rappresenta la mia storia, quella della mia famiglia e dell’intera Viterbo. Ed è giusto che venga messo a disposizione della comunità». Torniamo nei locali di ingresso: alle pareti, le foto di famiglia, in cui Mario è soltanto un bambino, si mescolano agli innumerevoli diplomi e menzioni d’onore. Ma per Mario Matteucci il miglior riconoscimento è continuare a lavorare nel suo frantoio. «Ancora lavoro, come fossi giovanotto. Da settembre a dicembre, non oltre, se no l’olio viene troppo forte. E mi dedico ad ogni carico, che prendo su appuntamento: le olive non devono stare troppo ferme. Spero di poter continuare ancora a fare questo lavoro, perché mi piace e perché è la passione quella che conta. Per me è la vita».

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