La Chiesa di San Giovanni Decollato, requisita per ospitare i “pestiferati”diventerà il Lazzaretto

di Luciano Costantini

Da quasi un millennio se ne sta piazzata lassù, in cima allo sperone che si affaccia sulla valle di Faul. Per la verità non è un capolavoro estetico, forse perché ha avuto la sfortuna di sorgere proprio di fronte ad una bellezza unica, quella del Palazzo dei Papi. Ecco la chiesa di Santa Maria della Ginestra, o di San Giovanni Decollato, più conosciuta a Viterbo come il Lazzaretto. In tempi difficili come quelli che stiamo vivendo, sta guadagnando qualche attenzione in più perché nel 1524 fu requisita per ospitare nugoli di “pestiferati” – come li chiama lo storico Cesare Pinzi – vittime di una delle tanti, periodiche, letali epidemie che colpiscono in tutti i tempi e a tutte latitudini: tifo, peste, vaiolo, spagnola, e oggi Coronavirus. Eppure di storia la chiesa/lazzaretto ne ha da raccontare. E’ stato tutto e il suo contrario: ai tempi dell’assedio di Federico II di Svevia (1243) il tempio, con annesso convento, praticamente sovrastava e quindi controllava la stradina che dalla valle di Faul si inerpica ancora fino alla Trinità. Aveva una rilevantissima funzione strategica, tanto è vero che l’Imperatore pensò bene di realizzare all’esterno due piazzole di tiro per sistemare altrettante catapulte in grado di colpire la città che da Porta Faul a Porta del Bove era ancora sprovvista di mura. La storia ci dice ancora che la chiesa/lazzaretto fu di proprietà dei monaci dell’abbazia di Sassovivo, che la diedero, in enfiteusi per trenta carlini, ai frati francescani. Ma nel 1524 a Viterbo piomba la peste e i “pestiferati” sono tanti, tantissimi. I Priori della città decidono di requisire la chiesa per trasformarla in lazzaretto. Scrive il Pinzi: “I priori atterriti dallo sterminio che seminava, doveron più tardi sfrattare alcuni frati francescani dal convento di Santa Maria della Ginestra sotto la chiesa della Trinità per allestir lì uno dei lazzaretti ove ricoverare i tanti miseri pestiferati”. Cinque anni più tardi, a epidemia superata, i frati vengono cacciati. Misteriose la cause. Secondo lo storico Signorelli erano semplicemente dei “malviventi” e l’allontanamento era stato richiesto addirittura da altri frati. “E si fanno voti – aggiungeva – che ve se ne pongano bene viventi senza però cedere loro la chiesa”. Come dire che i monaci durante la loro permanenza nella chiesa/lazzaretto/convento non erano stati precisamente rispettosi della Regola del poverello di Assisi. Nel 1855 altra epidemia, questa volta di colera e la chiesa ridiventa lazzaretto. Il Comune spende tre scudi e quindici baiocchi per la disinfestazione dopo “aver fatto bagnare tutto il pavimento con il cloruro di calce, ed aver fatto scopare, con polire bene anche dove era il deposito della calce”. Poi la storia scivola via veloce e francamente poco seducente: il Lazzaretto viene utilizzato come magazzino comunale, poi diventa sede della banda musicale, quindi garage dei mezzi della nettezza urbana, un Centro di Arte e Restauro mai nato. Infine una pizzeria e tale rimane fino a cinque anni fa. Storia di un sito storico che, appunto, è stato tutto e il suo contrario. Quel che ci rimane di culturalmente rilevante lo si deve al generoso ed encomiabile impegno di don Oreste Guerrini, parroco della chiesa dei santi Faustino e Giovita, che all’inizio del secolo scorso trasse letteralmente in salvo dipinti, pianete, calici e biancheria che sono attualmente custoditi nella chiesa omonima. Del Lazzaretto resta la strada e, in fondo ad essa, un rudere che meriterebbe rispetto e una destinazione adeguati alla sua storia.

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