Il cinema come specchio: il racconto breve di Margherita Cafagna

di Margherita Cafagna

“Il nostro problema non è tanto: “Siamo appagati?” Quanto: “Come capire cosa
desideriamo?”
Non c’è niente di spontaneo, di naturale riguardo ai desideri umani.
I nostri desideri sono artificiali.
“Bisogna che qualcuno ci insegni, a desiderare.
Il cinema è l’arte perversa per eccellenza. Non ti offre quello che desideri, ti dice come
desiderare”.
Sosteneva Žižek in una delle sue dichiarazioni sul cinema, l’unica arte di cui Elena non si
sentiva fruitrice ma parte integrante.
Le insegnava a vivere, la istruiva.
Le suggeriva come avrebbe potuto comportarsi, le movenze, le circostanze entro le quali
gioire o svincolarsi.
Le mostrava uno spazio di finzione ove ritrovare la propria realtà, la verità che a noi stessi
neghiamo nella quotidianità del nostro esistere.
“Ci serve il pretesto della finzione per attuare ciò che siamo davvero.”
Elena era giovane, dai connotati distinguibili, ma dalla personalità ancora malleabile.
Nascosta da un’ostentata sicurezza, perdeva equilibrio al pensiero di cosa l’indomani
l’avrebbe scolpita definitivamente.
Amava ancora la poesia, per quel suo modo struggente di parlare al cuore.
Avrebbe scoperto di lì a poco, quanto i nostri polmoni avessero bisogno di prendere aria, e
non di trattenerla.
La musica, poichè considerava non esistesse catarsi più onesta a cui affidarsi.
Le arti mute, espresse da forme, colori, percezioni, movimenti… memorie.
Tutto ha ragione di esistere si ripeteva tra sè.
Lei, tutti, tutto ciò che di immaginazione non ha limite.
Il cinema le prestava gli occhi, le porgeva i dettagli da indossare, ed una forza più intima ed
inconscia del potere decisionale, sceglieva se e come calzarli.
Nulla come la visione di un film le lasciava quella rincuorante sensazione di perdurare nel
tempo, di saperla abbracciare senza peso.
Poteva divenire chiunque, ovunque desiderasse.
Osservare ed accogliere senza doverne rispondere.
Il pensiero che fosse quell’unica pietra a deviare la corrente, creava in Elena un vuoto
insaziabile, che ogni mattina, prima di incamminarsi verso la fermata del bus, tentava di
otturare abbuffandosi di thè e biscotti.
6.45 giusto il tempo di smaltire la colazione camminando per all’incirca un quarto d’ora di
salita che la dividevano dal mezzo pubblico, verso la gloriosa routine.
Oltre allo zaino, si portava sulle spalle un senso di inappartenenza costante, che soffocava
tra le risa con gli amici, due o tre sorsi di caffè e qualche boccata di Marlboro Light prima di
entrare a lezione.
Sulla soglia della porta d’ingresso alla scuola, Giulio ogni mattina, aspettava di adocchiarla
avanzare verso di lui, testa sempre alta, ma sguardo sempre troppo assorto, corrugato.
Si percepiva in lui un moto di cura nei confronti di Elena.
Una tenerezza dettata da quegli occhi così scuri da non immaginarne la fine.
In maniera ormai così spontanea da non poterne trattenere lo slancio, le appoggiava un
braccio sulle spalle, chiedendole in maniera scherzosa, questa volta come ogni volta, da
quali strani pensieri fosse pervasa.
Elena, senza grande sorpresa di lui, sogghignava, tendendo leggermente l’angolo sinistro
della bocca verso l’alto, con un impegno veramente minimo.
Lì, i suoi occhi si assottigliavano leggermente, suggerendo una lieve sensazione di
compiacimento ed intesa, priva di parole superflue.
Giulio era l’unica persona con la quale riusciva a minimizzare l’importanza della parola.
L’unica con cui poter godere del silenzio, senza la pressione costante di doverlo spezzare.
Il suo volto portava con sé i lineamenti di un fascino antico.
Una bellezza soggettiva incorniciata da un lieve accenno di barbetta scura e mossi capelli
castani, che prepotentemente assumevano la forma della sua testa sul cuscino.
Da lì, potevi facilmente dedurre che non era l’ordine a primeggiare tra le sue peculiarità, ma
un cuore intatto, limpido, caldo.
Un cuore entro il quale Elena si rannicchiava e chiudeva gli occhi per qualche minuto,
assaporandone il tepore.
Si diressero entrambi verso l’aula, mai troppo in vena per rinunciare alle curiosità che il
mondo esterno potesse serbare, quella mattina come ogni mattina.
Erano sempre gli ultimi ad entrare, e gli ultimi ad uscire.
Gli ultimi a guardarsi dietro le spalle, e chiudere la porta.

 

Nella foto: Gustav Klimt, Lussuria e Voluttà, le Forze Ostili, dettaglio

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