Giuliani: da Fiorino a Leonardo, una famiglia che ama la Tuscia

di Arnaldo Sassi

Leonardo Piozzi Giuliani

Quando si percorre la Cassia e si arriva a Vetralla, andando verso Roma, a un certo punto sulla destra compare un edificio color verde chiaro con una grande scritta: “Centro cura del piede – Giuliani sport”. Quanti sono a conoscenza che si tratta di un’azienda leader a livello nazionale e che è all’avanguardia nella ricerca della cura del piede e non solo? E invece è proprio così. Tanto è vero che la sua clientela arriva da ogni parte d’Italia. E anche dall’estero.

Quella della Sanitaria Giuliani è una storia fantastica. Perché nata, cresciuta e poi vissuta tutta a livello familiare. Da piccolo negozio di calzoleria ad azienda di tutto rispetto, quale è oggi. Con un denominatore comune che ha attraversato ben tre generazioni: l’attaccamento alla terra d’origine, ovverosia la Tuscia, che non ha mai voluto abbandonare nonostante ne avesse tutte le possibilità.

A raccontare le vicende della famiglia Giuliani (o meglio Piozzi, come sarà chiarito in seguito) è Leonardo, che ha preso in mano le redini dell’azienda; col padre Giancarlo, che ormai ha superato la settantina, ancora a fare da supervisore.

“Sì, è vero” esordisce. “Noi ci chiamiamo Piozzi. Giuliani è il cognome di mia madre. Ma all’inizio tutti ci chiamavano Giuliani e così l’azienda ha preso questo nome. Comunque tutto nasce da mio nonno Fiorino. Lui era originario delle Marche ed era calzolaio. Faceva gli stivali per le forze armate. A un certo punto decise di trasferirsi a La Botte e dalla Tuscia non si è più mosso. Nella frazioncina era conosciuto da tutti, soprattutto dalle donne (sorride…). Poi decise di trasferirsi a Viterbo, in via Vicenza. Ed io, che ero ancora un ragazzino, cominciai a frequentare la sua bottega perché, come dicevo spesso a mio padre, io volevo fare le scarpe”.

Quanti anni aveva?

“Dieci. Tutte le mattine andavo a bottega, aprivo, annaffiavo le piante, spazzavo per terra. Un giorno dissi a mio nonno: io voglio fare e scarpe come te. E lui mi rispose: bene, allora raccogli tutti i chiodi che stanno per terra e raddrizzali. E io lo feci. Però imparai presto il mestiere e a 13 anni già sapevo fare le forme uguali ai piedi. In breve tempo divenni bravissimo”.

Poi che successe?

“Successe che entrò in scena mio padre Giancarlo. Io lo chiamo ancora il Berlusconi della famiglia perché è stato lui il vero ideatore e il vero motore dell’azienda. Lui si mise a studiare e dopo un po’ aprimmo nel centro storico di Vetralla. Non più calzoleria, ma ortopedia e sanitaria. Mio padre è stato un genio a livello commerciale e industriale. Grazie al suo intuito è riuscito a moltiplicare il giro d’affari in brevissimo tempo”.

E come si è arrivati al boom?

“Non lo sappiamo. Noi in famiglia diciamo che è stato il Padreterno. Però una cosa è certa. Senza mio padre tutto questo non ci sarebbe stato. Il merito è suo e di mia madre che gli è stata sempre al fianco”.

E lei? Quale è stato il suo ruolo?

“Io non volevo stare al pubblico, ma nel tempo ho imparato a lavorare ogni tipo di materiale: dal ferro all’acciaio, al carbonio, alle plastiche e alle resine, ai sugheri e al cuoio. E così mi sono ritrovato a fare mille mestieri diversi e a produrre altrettanti prodotti diversi, tanto è vero che ancora oggi è difficile dire quale sia il core business dell’azienda. Poi, mi sono dedicato alla formazione. Oggi tutti gli operai che lavorano qui sono formati da me”.

E il trasferimento nella sede attuale?

“Nel 1992. Da allora abbiamo fatto passi da gigante. Oggi abbiamo tanta tecnologia, come la macchina per osservare la schiena senza raggi X, o quella per vedere come cammini. Sono prodotti unici in Italia. Io ti inquadro e so dirti dove sei infiammato e ti misuro i disformismi. Ormai siamo diventati ricercatori del benessere, non solo venditori di prodotti. Cerchiamo di far star bene la gente e vinciamo quando riusciamo a far togliere il plantare, non a metterlo. Adesso stiamo sperimentando quella che sarà la farmacia dei prossimi 20 anni”.

Siete entrati anche nel mondo dello sport…

“Sì. Nel tempo ci siamo inventati le scarpe per ogni tipo di sport. Dal calcio, al rugby, al pattinaggio, alla boxe. Tutte su misura e in carbonio. Ci siamo inventati prodotti che non erano mai stati fatti”.

E, tanto per restare in tema, ci siete entrati con tutti e due i piedi…

“Beh, siamo stati i primi a pensare a un plantare per lo sport. Però la nostra fortuna fu quella di conoscere per caso il dottor Ernesto Alicicco, all’epoca medico sportivo della Roma. Venne colpito dalla schiettezza di mio padre e ci portò a lavorare dentro la società. Ci disse subito che per lui la cosa più importante era quella di farla risparmiare nelle spese mediche e ci fece un vero e proprio esame con dei giocatori da curare. La cosa andò bene. Realizzammo il primo parastinchi in carbonio per Statuto e la prima maschera protettiva, sempre in carbonio, per Aldair. Per due anni lavorammo gratis”.

E poi che successe?

“Una cosa straordinaria. Un giorno si presentò a Vetralla l’allora presidente della Roma Franco Sensi e volle parlare con mio padre. Gli disse che aveva saputo che da due anni lavoravamo per la società ed estrasse il blocchetto di assegni perché voleva pagare. Mio padre gli rispose: non voglio niente. Parlarono a lungo e alla fine Sensi disse che avrebbe fatto un po’ di pubblicità all’azienda. Poi disse una cosa importante: ho capito che il vostro segreto è la famiglia. Dopo qualche giorno si presentò un dirigente della Roma che ci illustrò un progetto pubblicitario all’interno dello stadio Olimpico, affermando che quello era un regalo da circa un miliardo e mezzo”.

E con Sensi poi com’è andata?

“Lui e mio padre diventarono amici di famiglia. Quando stava male lo chiamava spesso e prima di morire ha voluto vederlo”.

Poi avete cominciato a lavorare anche con la Lazio…

“Dal 2003. Ma è stata tutta un’altra cosa. Con la Roma e con Sensi c’era un rapporto viscerale. Un rapporto che si è interrotto con l’arrivo degli americani. Con la Lazio c’è tutt’ora un rapporto professionale. Anche se Lotito con me si è sempre comportato bene”.

Quali sono state, in campo sportivo, le soddisfazioni più importanti?

“Le sfide vinte. Molte. Ad esempio la maratoneta Franca Fiacconi. Prima di vincere a New York non poteva correre. Dopo 10 chilometri cominciava ad accusare dolori. Mio padre le fece un plantare particolare e il problema fu risolto. Altro caso, quello di Batistuta. Quando la Roma lo comprò dalla Fiorentina telefonò Alicicco per dirci che il giocatore non stava bene. Mio padre gli fece lo stesso plantare che aveva fatto a Giannini. Batistuta giocò e quell’anno la Roma vinse lo scudetto”.

Ultima domanda: perché avete deciso di rimanere a Vetralla? A Roma le possibilità di successo sarebbero state cento volte di più…

“Ci abbiamo pensato, eccome. Per esempio aprire un centro sul Grande Raccordo Anulare. Ma noi tutti siamo legati alla Tuscia, che è la nostra terra. Io abito in campagna, mi godo la tranquillità e faccio pure il vino…”.

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