Figure femminili: la Caterina preferiva violette e fiori di campo

di Gianluca Braconcini

I viterbesi nati nella metà del secolo scorso e quelli con qualche primavera in più avranno ancora nella mente e nel cuore il ricordo di una anziana signora con il viso “segnato” dall’età, i capelli bianchi e lunghi fino alle spalle, un cappello in testa dalle falde larghe ed un lungo vestito che le arrivava alle caviglie. Col suo passo lento e cadenzato camminava per il Corso vendendo mazzetti di violette ed altri fiori di campo che raccoglieva nei prati fuori città. La sua casa era una grotta a Poggio Giudio, fuori porta Faul, all’inizio di strada Bagni dove, fino agli Anni Cinquanta, erano le fornaci di calce Lì viveva senza acqua e senza luce in compagnia delle sue bambole, raccolte qua e là e del suo fido cane bianco e marrone Ràvele, Raul, che la seguiva ovunque come un angelo custode. Era questo il suo paradiso e per nessun motivo ne avrebbe mai rinunciato; le quattro mura di una casa, che più volte le era stata offerta dal Comune, avrebbero limitato la sua libertà ed il suo vivere vagabondo del quale andava molto fiera. Le piaceva vivere da sola, amava poco la compagnia della gente, preferiva quella delle sue amate bambole che non la giudicavano mai. Quella grotta era molto meglio dell’ospizio, non aveva orari, poteva alzarsi quando voleva, andare in giro per i prati a raccogliere fiori e cicoria, arrabbiarsi con chi la guardava strano e dedicarsi ai suoi amati cani. Molti di voi sicuramente, dopo aver letto queste poche righe, avranno capito di quale personaggio viterbese si tratta…eh sì è proprio lei: La Caterina, al secolo Giovanna Pannega nata ad Ischia di Castro il 27 febbraio 1890, rimasta vedova del primo marito, si trasferì a Viterbo intorno agli Anni Trenta. La sua è stata una vita difficile e sfortunata; vari vicissitudini l’hanno costretta a vivere in miseria, senza una casa e con tutte le difficoltà legate anche ad un figlio da crescere, Alfio, avuto prima del matrimonio. Nel 1950 si risposò con un pensionato che conobbe all’Ospizio di San Carluccio. Caterina per andare avanti, di giorno faceva qualche lavoretto girovagando con un carrettino insieme a suo figlio Alfio ed una muta di cani randagi che li seguivano come ombre; raccoglievano pezzi di metallo e del cartone che poi rivendevano a Fiore, titolare del deposito che si trovava un tempo nell’attuale chiesa diroccata di Santo Spirito a Valle Faul. Il pomeriggio andava a Corso Italia, si fermava davanti ai negozi e vendeva i suoi mazzetti di violette ai viterbesi che erano soliti “fare le vasche”, passeggiando su e giù lungo la via, un tempo salotto della città. La domenica mattina, si metteva fuori la chiesa del Suffragio ed offriva i fiori alle signore che uscivano dalla messa; chiedeva in cambio qualche moneta e poiché tutti la conoscevano e le volevano bene difficilmente le negavano gli spiccioli che tenevano nel portafoglio, era questo un modo per aiutarla a vivere dignitosamente; lei infatti non chiedeva mai l’elemosina. Anche se va ricordato un aneddoto che fa parte integrante della nostra cultura popolare. Una domenica mattina una signora altolocata che aveva acquistato un mazzetto delle sue violette, si lamentò perché a suo parere i fiori emanavano un cattivo odore, Caterina abituata a dire in faccia quello che pensava, le rispose prontamente così: “la fregna te puzza!”. Questa replica schietta e spontanea le costò ben due giorni di prigione che scontò al vecchio carcere di Santa Maria in Gradi. Per mangiare si arrangiava cucinando le erbe selvatiche che raccoglieva nei campi, qualche salsiccia alla brace cucinata dal marito Enrico ed un piatto caldo che andava a prendere alla cucina dell’Ospedale Grande, perfino le cuoche le volevano un gran bene o all’Ente Assistenza che si trovava in via della Marrocca; metteva tutto nei vecchi secchietti di conserva e si avviava pian piano verso la sua grotta a Poggio Giudio dove divideva il mangiare con la sua famiglia…il primo boccone però era sempre per il suo Ràvele. Il bene che lui aveva nei suoi confronti della sua padrona era identico, quando Caterina venne ricoverata per qualche giorno lui si accovacciò fuori la porta dell’Ospedale e l’aspettò lì, giorno e notte finché non fu dimessa; anche lui aveva commosso le donne della cucina che gli portavano sempre qualcosa da mangiare. La bellezza popolare del suo viso graffiato dalle rughe le permise anche di essere notata da registi come Blasetti e Lattuada, che la fecero lavorare come comparsa in “Vecchia guardia” del 1934 e nella “Mandragola” realizzato nel 1965. Ho un ricordo indelebile di Caterina, che è rimasto fissato nella mia memoria di bambino. Tutte le settimane suo figlio Alfio, molto amico di mio padre, veniva a servirsi presso la nostra barberia ed ogni sabato, per oltre quarant’anni, ci chiedeva taglio, shampoo, barba e frizione. Molto spesso lo accompagnava Caterina che una volta entrata si sedeva ed aspettava in silenzio, a volte anche addormentandosi, che suo figlio terminasse il “tagliando di bellezza”. Il sabato andavo sempre in barberia a fare il maschietto di bottega ed avevo così modo di incontrarla; guardavo questa anziana signora con molto timore, aveva lo sguardo corrucciato e parlava poco, ogni tanto mi fissava e questo mi metteva in soggezione. Un sabato d’estate, avevo circa 9 anni, Caterina a passo lento ed in braccetto a suo figlio arrivò sudata e col fiatone fuori la porta del negozio. Alfio entrò subito salutandomi e scambiando qualche battuta con gli altri clienti, come era solito fare; lei rimase per qualche momento fuori, riprese fiato e poi si accomodò riposandosi su una sedia, vedendola affaticata mi venne spontaneo andarle a prendere un bicchiere d’acqua. Glielo porsi con fare dimesso e le dissi: “Ecco Cateri’, bevete un bicchiere d’acqua fresca!”…lei alzò lo sguardo mi fissò come sempre e vidi un sorriso aprirsi tra quelle rughe segnate dal tempo, prese il bicchiere con una mano e con l’altra mi fece una carezza dicendomi: “Chi Dio ti binidìca!”. Il calore di quella mano sul mio viso, il suo sorriso e quelle parole sono ancora dentro di me e non me le sono mai dimenticate…qualche mese dopo, il 27 dicembre del 1974 Caterina trovò la sua serenità in altri prati; a raccogliere violette e giocare con le sue amate bambole.

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