Don Gianni Carparelli: un prete dell’altro mondo

di Arnaldo Sassi

Don Gianni Carparelli

Un prete dell’altro mondo. Nel vero senso della parola. Perché lui il mondo lo ha girato per largo e per lungo. Ottant’anni portati benissimo, lo spirito di un adolescente pieno di entusiasmo, una vita spesa tutta a favore dei più deboli: ecco a voi don Gianni Carparelli, già parroco a Canepina e attualmente in pensione.
Stupisce, nel vederlo, la leggerezza del suo parlare, il suo candore, il suo essere prete di strada. Perché lui prete in prima linea lo è stato per lunghissimi anni, dando il senso più alto alla sua vocazione.
L’incontro avviene in un bistrò, davanti a un buon piatto di pasta e a un calice di bianco. E il colloquio scorre via liscio come l’olio. “La mia vocazione?” esordisce. “E’ nata per caso. Frequentavo la parrocchia dove c’erano don Steno Santi, don Sebastiano Ferri e don Dante Bernini. Tutte persone di altissimo carisma culturale e spirituale. Così mi interessai a questo mondo e il resto avvenne di conseguenza”.

Fin qui tutto normale. E poi?
“I primi anni li vissi a Viterbo. Poi un giorno incontrai per caso un mio ex professore, padre Vittorio Costa, insegnante di sociologia. Gli confessai che non ero molto soddisfatto del mio ruolo e lui me la buttò là, chiedendomi di andare in Brasile. Accettai. Era il 1975 e avevo 32 anni”.

E in Brasile cosa ha fatto?
“Cominciai a insegnare nel biennio universitario dell’università cattolica ‘Puc’ di Rio de Janeiro: introduzione al Cristianesimo ed etica sociale. Ma collaboravo anche con i centri che si occupavano delle favelas. All’epoca ci si poteva ancora andare. Oggi purtroppo è impossibile. Lavoravo anche in una parrocchia che accoglieva la comunità italiana, anche se molti di loro l’italiano non lo parlavano più”.

Cosa ricorda in particolare?
“Beh, sono stato anche in Amazzonia. Poi a Oiapoque, un paese all’estremo nord del Paese, al confine con la Guyana francese. Andai lì per alcuni mesi a sostituire un missionario di Pitigliano, Nello Ruffaldi, che si era ammalato di malaria. Un’esperienza stupenda. Entrai in contatto con le comunità indigene. Dormivo nelle loro capanne, mi accompagnavano con la barca. Parlavano un misto di francese, lingua locale e portoghese, ma alla fine ci si capiva. Ricordo che visitai anche un ospedale che ospitava malati di lebbra, a Marituba. Per me si aprì un mondo nuovo che credo sia servito ad aumentare la mia sensibilità nei confronti della sofferenza umana, sia fisica che mentale e spirituale. Quella che non trovo nella società di oggi, dove sembra ci sia solo interesse per denaro e apparenze”.

Quanto tempo è rimasto in Brasile?
“Cinque anni. Poi, nel 1980, mi arrivò un invito a lavorare in Canada, perché a Toronto c’era una comunità italiana che aveva molti problemi, sia con l’alcolismo che con le droghe. Passai un anno in Germania, con don Mario Brizi, in attesa di fare la documentazione, e poi partii”.

E quella in Canada che esperienza è stata?
“Complicata, ma entusiasmante. Mi immersi subito nella comunità italiana che all’epoca contava circa 400 mila abitanti. Feci amicizia con molti italo-canadesi, alcuni anche di alto livello culturale e politico. Uno è attualmente ministro della Sanità nell’Ontario. Pensi che è venuto tre volte a trovarmi a Canepina. Con lui ho scritto anche un libro a quattro mani in inglese. Si intitola ‘High on life’. High in inglese significa alto, ma nel mondo della droga sta per ‘sballato’. Io lo usai per dire ‘sballato di vita’. In quel libro c’era dentro il percorso terapeutico che io proponevo per uscire dalla droga. Ne furono vendute molte copie”.

Un percorso ideato da lei?
“No. Io avevo interesse per il problema, ma non avevo esperienza. Così in precedenza mi ero documentato visitando il Ceis di Viterbo, la comunità Incontro di don Gelmini e San Patrignano con Muccioli. Poi fondai l’associazione ‘Caritas, school of life’. Ho iniziato girando per le strade. Gli italiani di Toronto dicevano che il problema non esisteva. Allora con una giornalista – Laura Albanese, diventata poi deputata – cominciai a riprendere varie scene con una telecamera. Poi andavo in radio e in televisione a parlare del problema”.

E ci furono riscontri?
“Cominciai a fare riunioni con i genitori. Parlavo di droga e di disagio giovanile. La mia associazione non era un centro medico, ma una scuola di vita. Si parlava anche di integrazione, che all’inizio era difficile. Ma l’italiano ha sempre dimostrato capacità creative e voglia di lavorare. Pensi che hanno costruito intere città. Dopo qualche mese cominciarono a venire anche i figli per poi accettare un percorso, comunità terapeutica, che aveva la durata di due anni. Attualmente questa comunità è multietnica”.

Quanto tempo è rimasto in Canada?
“Ben 28 anni. Ma sono stato anche in Uganda, con un amico italiano del ‘Cuamm’ di Padova. E ho conosciuto madre Teresa di Calcutta. Nell’85 fu mia ospite in Canada per una settimana. Fu lei che mi convinse a non fumare più le sigarette”.

E la decisione di tornare in Italia?
“Nel 2013. Avevo dato le dimissioni dall’associazione, ma la gente continuava a cercare me. Capii che potevo dare fastidio, così presi la decisione. Anche se un mio amico ambasciatore mi aveva invitato ad andare in Colombia. Ma lì c’era un ginepraio di problemi che non avrei saputo affrontare. E così rinunciai”.

Poi la parrocchia a Canepina…
“Dove mi sono trovato benissimo e dove ancora oggi ritorno volentieri”.

Che differenze ha trovato nella società italiana al suo ritorno?
“Molto poche. Era chiusa quarant’anni fa e mi sembra chiusa ancora oggi. Ma, sottolineo, è una mia sensazione. Non vedo uno spiraglio di luce, anche perché – secondo me – non c’è mai stata una vera guida di governo, e non solo. Si è solo pensato a discutere, spesso a vuoto. Questo vale anche per la Chiesa. Ci si preoccupa molto dei riti ‘cerimoniati’, ma non delle celebrazioni della vita. E chi va a Messa quando esce dalla chiesa ha già dimenticato tutto, soprattutto quello che neppure ha capito. Dovremmo trasformare la celebrazione liturgica in un momento educativo spirituale. Che sarebbe il vero rinnovamento, non quello di spostare altari, candele e statue”.

Quanto ha influito la crisi che stiamo vivendo?
“C’è stato un rigurgito di egoismo esasperato, ma vedo anche spiragli forieri di un futuro migliore. Anche a Viterbo. Penso per esempio alle tante associazioni di volontariato che operano nel nostro territorio e nel resto d’Italia. C’è tanta gente in gamba che ammorbidisce colpi bassi dell’egoismo”.

Cosa pensa del problema immigrati?
“Un problema, credo, gestito male dall’Europa. E l’Italia si trova svantaggiata. Perché non sembra che si parta dal rispetto e dall’accoglienza, ma dal controllare i danni e gli interessi. Gli immigrati hanno il diritto di essere aiutati, anche perché fuggono da situazioni delle quali tutti noi occidentali abbiamo responsabilità. Ma, oltre a farli entrare, andrebbero accolti con dignità, non ammucchiati come animali o residui da scartare. L’Europa non mi sembra ancora matura per questo salto di qualità umana. E intanto la gente muore. Per fortuna c’è ancora chi non ha dimenticato l’umano nella storia”.

E di Papa Francesco?
“Per me è un genio della pastorale spirituale. L’ho incontrato a dicembre 2018, durante un convegno in Vaticano su ‘Droghe e dipendenze’. Lo avvicinai e gli dissi ‘Santità, tenga duro’. Lui si fece una gran risata”.

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