Danilo Monarca, ovvero l’agricoltura del futuro

di Arnaldo Sassi

Danilo Monarca

Tra il quartiere Pilastro e il Riello la distanza non è poi molta, ma lui di strada ne ha fatta tanta. Anche se, per scelta personale, ha deciso di sposare Viterbo, sua terra natìa, come quella su cui affondare le sue radici, pur avendo tutte le possibilità di esplorare l’intero mondo.

Il personaggio in questione è Danilo Monarca, laureatosi alla Sapienza di Roma nel 1982 in ingegneria civile idraulica col massimo dei voti. E oggi – alla veneranda età di 67 anni – è direttore del Dipartimento di scienze agrarie all’Università della Tuscia.

“Sì – ammette lui stesso – volevo costruire dighe, ma poi talvolta la vita sceglie per te e così mi sono ritrovato a occuparmi di agricoltura. Un’opzione stupenda, della quale non mi pento. Anzi, ne sono entusiasta. E poi questo mi ha consentito di rimanere nella città dove sono nato, dove ho i miei parenti e i miei amici. Io amo Viterbo e l’Università”.

Un curriculum vitae da far paura (ben sette pagine), Monarca racconta come è avvenuto questo doppio salto mortale, dall’idraulica all’agricoltura. “In realtà – dice – all’inizio ci provai. Ed ebbi un colloquio con un’azienda che lavorava in Africa. Mi scartarono e presero un ragazzo che aveva ottenuto un voto di laurea molto più basso del mio. Però fisicamente era un vero e proprio armadio: alto un metro e 90 e con due spalle così. Poi, mi spiegarono il motivo: ‘Col tuo fisico (ero gracilino, pesavo 60 chili) non resisteresti più di una settimana’. Insomma, a modo loro mi fecero capire che mi avevano fatto un favore”.

Bene. E come è arrivato a occuparsi di agricoltura?

“Subito dopo la laurea avevo cominciato la libera professione. Un giorno capitai per curiosità nella vecchia facoltà di Agraria dell’Università della Tuscia. Entrai e nell’androne non c’era nessuno. Anzi, c’era un signore sulla quarantina che io non conoscevo. Lo avvicinai, mi presentai e gli dissi che ero interessato a collaborare in qualche modo. Lui mi abbracciò. Era il professor Adolfo Gusman. Da lì è partita la mia avventura (era il 1983), che ancora oggi continua”.

E la libera professione?

“La lasciai nel 1987, quando divenni ricercatore a tempo pieno”.

Adesso veniamo all’agricoltura. Anzi, alla meccanizzazione dell’agricoltura…

“Forse il mio destino era scritto nelle stelle. Un mio nonno infatti, era contadino, l’altro muratore. Le due cose insomma, si sono mescolate…”.

E allora?

“Oggi in agricoltura le macchine sono fondamentali. Spesso si considera un trattore uno strumento obsoleto. Invece dentro c’è tanta tecnologia. Al confronto le nostre automobili sono veri e propri pezzi di ferro. E poi, dietro c’è tanta ricerca. Anzi, l’Italia nel settore è all’avanguardia nel mondo. Sia come ricerca vera e propria, sia come quantità di modelli prodotti, dove è al secondo posto, anche grazie a vere e proprie aziende colosso”.

E l’Università che ruolo ha?

“Un ruolo importante, anche se le grandi aziende hanno i loro centri di ricerca, che per lo più stanno all’estero. Ma noi siamo determinanti soprattutto coi piccoli costruttori di macchine agricole. Ne cito una per tutte: la Facma di Vitorchiano. Non è molto grande, ma è leader nel mondo. E con loro abbiamo un rapporto di collaborazione – e ormai anche di amicizia – che dura da quasi 40 anni. Realizzano macchine aspiratrici per le nocciole. Ma ci sono altre aziende che sono delle eccellenze. Alcune fanno anche dottorati di ricerca e hanno ingegneri che lavorano per loro sull’agricoltura 4.0, sull’intelligenza artificiale e anche sulla robotica”.

Insomma, una rivoluzione vera e propria…

“Sì. Basti pensare che oggi una macchina può raccogliere circa 1.000 chili di nocciole l’ora. Prima se ne facevano tra i 25 e i 30. In questo modo si possono anche contenere i prezzi del prodotto”.

Cos’altro si può aspirare?

“Un po’ di tutto. Dalle olive alle castagne. Persino l’uva. Esistono infatti macchine dette ‘scavallatrici’, che salgono sopra il filare e, attraverso sistemi di battitura, fanno cadere l’uva a terra. Ma per far questo bisogna prima impostare la vigna per la raccolta meccanica, con tiranti e montanti, e soprattutto calcolando bene la distanza tra un filare e l’altro”.

Ergo, oggi l’agricoltura è diventata come una fabbrica…

“Beh, ho imparato nel tempo che l’agricoltura rimane un mondo a sé. Perché in fabbrica sai tutti i giorni quello che produci; in agricoltura esistono molti imprevisti, a cominciare dal meteo…”.

Scusi, non mi sembra questa roba da piccoli agricoltori…

“No. Perché per far ciò servono investimenti. E questo è uno dei più grossi problemi dell’agricoltura italiana, dove il 50 per cento delle aziende non hanno spazi superiori ai due ettari. Gli agricoltori di questi terreni vanno avanti solo per passione, ma i costi di produzione diventano più alti. Alcuni, per far fronte alle spese, decidono di consorziarsi. Anche nel Viterbese. Ma servirebbe uno stimolo ulteriore”.

Cos’è un bio-distretto?

“Il bio-distretto nasce da un insieme di Comuni che si mettono insieme con l’idea di realizzare un distretto biologico. L’Università ha un ruolo nell’individuare i requisiti necessari, facendo molta attenzione a non gravare con ulteriori costi”.

Per esempio?

“Beh, sarebbe indispensabile, ad esempio, la revisione costante dei trattori, come avviene in Germania, dove le morti per incidenti agricoli sono diminuite da 100 a 10. Ma questo andrebbe finanziato dallo Stato, perché le aziende da sole non ce la farebbero”.

A proposito: che ne pensa della protesta degli agricoltori?

“Hanno ragione. I prezzi al produttore sono troppo bassi e così non si arriva alla fine del mese. E’ vero che nella filiera ci sono altri costi, ma chi lavora dovrebbe essere pagato. Poi, non si tiene conto di un’altra cosa molto importante: l’agricoltore è anche il manutentore del territorio. Se l’agricoltura va via, le colline rovinano a valle”.

Torniamo a parlare dell’Università…

“Il dipartimento che dirigo è il primo in Italia come ricerca. In facoltà ci sono poco meno di un migliaio di studenti. Insomma, quello dell’agricoltura è oggi un settore appetibile, anche se in questi ultimi anni le iscrizioni sono in leggero calo. Ma questo dipende da due fattori: quello economico e, soprattutto, quello demografico”.

Insomma, ai giovani l’agricoltura piace…

“Sì. E vi si avvicinano con un taglio nuovo, più scientifico e portando nuove idee. Il vecchio agricoltore sta scomparendo, anche se porta con sé un patrimonio che non si recupererà più”.

Come vede il loro futuro?

“Non voglio essere pessimista, ma per me – come ho raccontato prima – si chiuse una porta e si aprì un portone. Adesso i ragazzi si devono accontentare del primo sportello che si apre, senza la possibilità di poter scegliere”.

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