Angelo, detto Checco Lallo il “pignattaro” di Vetralla

di Arnaldo Sassi

Angelo Ricci, detto Checco Lallo

Se qualcuno di voi, a Vetralla, chiede di Angelo Ricci, si sentirà sicuramente rispondere: “E chi lo conosce?”. Se invece cerca Checco Lallo, il ‘pignattaro’, allora avrà tutte le informazioni che desidera. Perché, nonostante il nostro personaggio sia ancora di giovane età (ha 39 anni), porta con sé una tradizione ultra centenaria, quella della lavorazione della terracotta.

“Sì, è vero – esordisce – un’attività cominciata dai miei bisnonni alla fine dell’800, poi portata avanti da mio padre e da mio zio, e adesso anche da me. Un mestiere tramandato di padre in figlio, che non ho alcuna intenzione di interrompere. Anzi, visto che ho un figlio piccolo, penso che quando crescerà gli insegnerò i segreti di quest’arte, perché lui dovrà continuare”.

L’arte è quella della terracotta, materiale di cui Vetralla è molto ricca, e che in passato era un’attività molto produttiva. “Adesso – dice Checco Lallo – io questo mestiere lo faccio per hobby, perché non ci si vive. A comprare i miei oggetti sono i vetrallesi e, d’estate, qualche turista. Poi partecipo a fiere o altro tipo di manifestazioni. E così riesco ad arrotondare”.

Quindi mi sembra banale chiedere come ha cominciato…

“A dodici anni, durante l’estate. Mi ci mandava mio padre, durante le vacanze scolastiche estive, dicendo che così avrei imparato a fare qualcosa di buono, invece che stare in casa o andare a giocare con gli amici. E pian pianino ho imparato il mestiere”.

Il laboratorio di Checco Lallo si trova in via dei Pilari, su una costa su cui poggia il centro di Vetralla. Ed entrandoci si ha l’idea di fare un vero e proprio tuffo nel passato. Tutto è rimasto come una volta: il forno, il tornio a pedale, gli attrezzi del mestiere. E, da un lato, fanno bella mostra di sé gli oggetti finiti.

Parliamo un attimo della terracotta…

“Fa parte del mondo della ceramica, ma è un materiale diverso. Ha una particolarità: una volta lavorata può essere utilizzata per metterla sul fuoco. Ha un colore rosso bruno. E fino a qualche decennio fa era la stoviglieria di una volta, con la quale cuocere gli alimenti. Una specie di ceramica popolare, perché meno raffinata”.

Parliamo allora della lavorazione…

“Beh, io adesso compro i panetti di argilla già belli e pronti, ma i miei avi andavano nei boschi con picchio e pala”.

Dove, in particolare?

“Vetralla è un’area molto ricca di questo materiale. Soprattutto nelle zone di Pian delle Crete e di monte Pianese. Bisognava andare lì e scavare, laddove c’erano – e ci sono ancora – molte vene d’argilla”.

E poi?

“Poi veniva portata nel laboratorio e veniva fatta essiccare al sole e al vento. Il passo successivo era quello di frantumarla”.

E come si faceva?

“All’epoca i più fortunati avevano le macine, quelle simili ai mulini per il grano”.

E Checco Lallo?

“Lui la stendeva per terra e ci camminava sopra. Anzi, ci faceva camminare anche eventuali visitatori. Oppure la stendeva fuori il laboratorio e ci faceva passare sopra le auto. Insomma, tutti i sistemi erano buoni…”.

Veniamo al passaggio successivo…

“A questo punto veniva presa la polvere e impastata con l’acqua per farne dei panetti. Dopo qualche giorno, quando aveva perso un po’ di umidità e quindi era più consistente, ma era ancora malleabile, si metteva sul tornio per la lavorazione. E si creavano gli oggetti più vari”.

Il lavoro più complicato…

“Al contrario. Quello più semplice. Ovviamente bisognava aver imparato la tecnica. Mio nonno, che era bravissimo, a fare un piatto o una pignatta ci metteva un minuto, o forse meno. A me ce ne vogliono cinque, ma è un lavoro molto veloce”.

A questo punto il lavoro è finito..

“Magari. Gli oggetti vanno fatti asciugare e prima non c’erano gli essiccatoi. Quindi andavano messi all’esterno, rigorosamente all’ombra e al sole soltanto alla fine, per togliere tutta l’umidità”.

Ci siamo?

“Ancora no. A questo punto c’è la cottura, poi la decorazione con lo stemma di ogni singolo ‘pignattaro’. Quello di Checco Lallo era ed è ancora una foglia gialla su fondo verde. E infine si deve passare la cristallina, che serve a impermeabilizzare l’oggetto. Poi una nuova cottura. E solo a quel punto si può dire che il lavoro è finito”.

E’ tutto molto romantico, anche se molto laborioso…

“Quando in questo laboratorio ci lavoravano in quattro si faceva un’infornata al mese. Talvolta due”.

E adesso?

“Come ho detto prima, adesso continuo per hobby. Ma ci si è messa di mezzo anche la sfortuna. Nel 2019 avevo deciso di riprendere a pieno ritmo, ma poi è arrivato il Covid e ho dovuto chiudere baracca e burattini per un anno intero”.

Però ha deciso di continuare…

“Sì. Perché questa tradizione non deve morire. Anche se richiede molta dedizione e soprattutto molta pazienza. Sa cosa diceva sempre mio zio? ‘Sto lavoro non vole prescia’. E aveva proprio ragione”.

Gli attrezzi e il tornio
Gli attrezzi e il tornio
3_Gli oggetti finiti
Gli oggetti finiti
Il forno
Il forno
Il laboratorio
Il laboratorio
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