Vino e cantina. Le osterie viterbesi de ‘na vòrta

di Gianluca Braconcini*

Le vecchie osterie, dove una volta si trascorreva il tempo a bere qualche bicchiere di vino ed a giocare una chiassosa partita a scopone, a tressette o a morra, sono ormai del tutto scomparse. Esse hanno avuto da sempre un ruolo importante nella vita quotidiana dei quartieri viterbesi; erano i tipici  luoghi popolari di ritrovo, dove sopravviveva l’anima genuina della città ed hanno costituito per lungo tempo il momento di incontro, di socializzazione e di scambio d’idee, in aggiunta alla chiesa ed alla piazza. Ricordo bene il tipico odore dell’osteria, il profumo del “vino e cucina”  che si sentiva quando capitava di passare davanti a questi locali e degli stanzoni arredati con tavoli e sedie dove prendevano posto gli avventori mentre sul bancone erano appoggiati i grandi quartaroni di coccio che contenevano il vino, scrupolosamente coperti da un panno bianco. Dietro prendeva posto l’oste sempre indaffarato a gestire il via vai di gente. Aveva le maniche della camicia arrotolate e, col classico sinalone  allacciato ai fianchi, serviva le consumazioni sui tipici tavoli di legno lucidi e levigati, dove con incredibile leggerezza, scivolavano bicchieri di vino fatti apposta per contenere la cosiddetta biùta, ossia adatti per due abbondanti sorsate. Egli aveva la fama di persona astuta, perché sapeva soddisfare tutte  le necessità dei suoi avventori, conciliandole al meglio con il proprio tornaconto personale. Era sempre ben informato, grazie alle chiacchiere che gli giravano attorno, spesso liberate da menti piuttosto annebbiate dai fumi dell’alcool ed a volte traeva profitto delle occasioni che gli si presentavano. La nostra lingua infatti è piena di proverbi e modi di dire  che ne testimoniano la furbizia: “fare i conti senza l’oste” o “come chiedere all’oste se il vino è buono”, entrambi stanno a significare la capacità dell’oste di far sempre i propri interessi.

Una figura tipica delle osteria d’una volta era il Tirasù: un inserviente il cui compito principale consisteva nell’andare in cantina a cavare il vino dalla botte con il quartarone e portarlo al bancone per la mescita. Quando la cantina era lontana dal luogo di vendita, il Tirasù, soprattutto nei giorni di festa e nelle ore di punta, era costretto di continuo a fare avanti indietro con due quartaroni, uno per mano. Il suo lavoro non era pagato adeguatamente visto l’impegno e la fatica, ma è pensabile che il tirasù integrasse notevolmente il suo compenso con gagliarde appizzàte alla cannella della botte  ogni volta che spillava il vino,  per cui a fine giornata, oltre a ‘ntralaccà in mezzo ai tavoli, era piuttosto allegro e pieno di brio.

Le osterie molto spesso prendevano nome dalle insegne araldiche che esponevano: Aquila Nera (via Matteotti), dal luogo dove si trovavano: a la Madonnèlla (piazza S.M.Nuova), ‘l Pero (via Sant’Antonio); altre invece dal nome o soprannome del proprietario:  la Riccarda (via della Sapienza), Oreste ‘l Gatto (via del Pavone), Toto del Buco (via Cairoli), ‘L Cassettaro in via dell’Orologio Vecchio, l’Alba (l’odierno Lucio in via San Pellegrino) e Giggi del Bravo in piazza Fontan di Piano. In ognuna di esse, sopra la porta c’era attaccata la tipica insegna costituita dalla  fraschetta di quercia o d’alloro e, nel nostro dialetto, l’espressione metta fòra la frasca  indicava che in quel locale si vendeva anche  il vino dei propri fondi, come era consuetudine fare fino al secolo scorso.

L’arte dei  Tavernieri invece aveva come emblema il Quartarone che nella loro attività serviva da misura di capacità. Esso era un boccale panciuto della capacità di 10, 12 litri, di terracotta verniciata, con un’ansa ed un  becco per facilitare il travaso del contenuto; tra di essi correva una cordicella che serviva a facilitarne il trasporto.

Oltre  a consumare la fojétta, misura di capacità che corrispondeva a mezzo litro, all’osteria si poteva anche mangiare, talvolta accompagnati da una piccola orchestrina che con chitarra o mandolino e fisarmonica, intratteneva gli avventori con canzoni e stornelli a braccio. Sull’insegna spesso si leggeva proprio: “Vino e Cucina”…ed erano questi gli inconfondibili odori che avvolgevano chiunque entrasse.

Si trattava per lo più di pasti della cucina casareccia, come il baccalà arrosto o in umido, acquacotta, le frittelle, le broccole ‘mpastellate, il pesce fritto, le patate lesse o a  la paracula, il pollastro cul pummidorétto ed altri cibi della cucina nostrana;  al sabato poi la trippa al sugo. Sul fornello a carbonella o a gas, dentro una padella o in una marmétta, c’era sempre a cuocere qualche cosa, cibi semplici che sprigionavano un profumo piacevole e delizioso.

Nel locale si potevano portare anche pietanze già cotte o il pane ed affettato  pi fa la cullazzione o la merènna consumando sul posto vino e gazzosa; contenuta nella bottiglia con la tipica palletta di vetro con funzione di tappo, sostenuta e spinta dalla pressione interna del gas…quando si voleva aprire bastava spingerla verso il basso dentro la bottiglia. Le palline  erano la gioia dei ragazzi che le utilizzavano per giocare a biglie in un vecchio gioco d’un tempo chiamato Giro di Francia. In alcune osterie inoltre si potevano noleggiare i ruzzoloni per qualche partita fuori porta o nelle lunghe vie della città; con un piccolo supplemento era compreso un barlòzzetto pieno di vino che aiutava i giocatori  ad imprimere più forza ai lanci.

Nei regolamenti comunale dei primi del Novecento i Caffettieri e gli Osti dovevano chiudere le proprie attività alle tre di notte, ai Bettolieri ed agli altri venditori di vino ed acquavite, alle due di notte, pena una multa di 12 scudi. Spesso capitava che all’ora di chiusura, l’oste dopo aver sistemato il locale, fosse costretto  a trascinare fuori qualche cliente ubriaco, che si era addurmìto sul tavolino, cercando di svegliarlo invitandolo ad uscire: “ A Cèncio, e àrzete su! Daje ‘n po’; mòvete, lesto chi vòjo annà a durmì, èsse bòno chi ‘l vinàro adè stracco!”. In realtà tutte le sere c’era qualcuno ubriaco da  portà  de fòra a strascinone, che veniva  “amorevolmente” lasciato appoggiato su una parete o sulla soglia di casa a smaltire la sbornia per tutta la notte.

L’effetto del vino spesso era motivo di violente liti tra i clienti e a volte quando i toni diventavano più cruenti, volava  anche qualche mortale coltellata…tanto che nella nostra tradizione popolare, si dice che: “ ’Ndo’ c’adè stato ‘l mort’ammazzato ‘l vino adè più bòno! 

Oggi i bar hanno sostituito le romantiche osterie, le merènne de ‘na vòrta  sono state rimpiazzate dai moderni ed aggreganti  happy hour, così come i concertini con la fisarmonica e mandolino del curioso e virtuoso Briziolétto, suonatore viterbese d’un tempo,  hanno lasciato spazio agli odierni pianobar.

 

*Cultore del dialetto e della storia viterbese

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