Le case della vita: Via dell’Orticello Natale quasi dickensiano

Maria Letizia Casciani

Un racconto pieno di sentimenti e di nostalgie quello di Maria Letizia Casciani che evoca il primo Natale in via dell’Orticello “Fu un Natale triste per me: con la mia vecchia casa avevo lasciato anche la mia infanzia, i ricordi le sue icone”. Un nuovo Natale entra nella nostra scrittrice dando un senso diverso e forse più consapevole alla sua esistenza.

A metà degli anni Settanta, in particolare nei paesi come il mio, la vita era ancora molto semplice. Il consumismo tardava ad arrivare e le persone erano abituate ad uno stile di vita parco per forza di cose, non certo per scelta.
Esistevano solo poche famiglie che potevano permettersi quelli che a noi comuni mortali sembravano lussi da miliardari sudamericani, anche se, a ben guardare, erano solo cose di poco conto, come una fare settimana bianca in montagna o possedere due macchine in famiglia: non erano quelli ad essere miliardari, eravamo noi ad essere poveri, eravamo noi – cioè, la stragrande maggioranza degli abitanti del paese – a combattere la lotta quotidiana con le lire.
L’anno del trasloco in via dell’Orticello fu memorabile per la mia famiglia.
In negativo.
Dal punto di vista economico, lo sforzo per tirare su quella casa era stato titanico: non c’erano soldi per fare quasi nulla, se non lo stretto necessario, cioè la pura sopravvivenza.
Non c’erano mezzi sufficienti nemmeno per comprare i mobili e, per riuscire a riempire tutte quelle stanze, l’imperativo fu: riadattare.
Furono riutilizzati i pochi mobili che avevamo nella vecchia casa e si frugò nelle cantine e nei magazzini anche dei conoscenti, per tirare fuori vecchie credenze, tavoli, una scrivania, letti in ferro, che, nel corso dell’estate, erano stati ripuliti e riverniciati per poterli usare di nuovo.
Inventammo il vintage senza averne la consapevolezza.
In realtà – a dirla tutta – io mi vergognavo di quelle povere cose. Avrei voluto avere intorno a me un arredamento più decoroso, dei veri mobili, magari prodotti in fabbrica.
Mio padre faceva il falegname, avrebbe potuto costruirne di bellissimi, ma non aveva tempo da perdere dietro alle esigenze della casa: persino le porte delle stanze rimasero a lungo senza vernice, punteggiate da stuccature marroni che restarono per anni in rilievo sul legno vivo.
Il babbo aveva avuto delle commesse importanti da una ditta che stava fabbricando decine e decine di appartamenti per i quali erano necessari tutti gli infissi. Una vera fortuna, che ci avrebbe permesso di restituire i debiti fatti in quegli anni per costruire la casa. Le energie, il tempo e la progettualità dovevano essere canalizzati lì e dunque, niente mobili fabbricati dall’artigiano. Solo cose vecchie e un po’ tarlate. Di notte si sentivano spesso i tarli fare festa con i nostri armadi. Un vero paradosso, in casa di un falegname.
Io e mia sorella ci ritrovammo in cameretta degli orribili letti di ferro, riverniciati di un rosa quasi fosforescente (forse un residuo della ferramenta di mia madre); si inclinavano pericolosamente ogni volta che ci infilavamo dentro per andare a dormire; in un angolo c’era una sola scrivania che ci era stata regalata da Lola, che l’aveva tenuta a lungo dentro uno dei suoi tanti magazzini.
Non c’erano lampadari e le lampadine pendevano dal soffitto.
In uno dei bagni avevamo sì un lusso, ma rimase a lungo puramente potenziale: la vasca da bagno. Ne avevo vista una a Roma, a casa di Lola, ma non mi ero mai lavata in una vasca da bagno. Né l’avrei fatto tanto presto: restò inutilizzata. Non c’erano soldi per completare l’impianto dei riscaldamenti e dunque niente acqua calda per la vasca, che, negli anni, fu preziosa per lavare a mano i panni.
Per farci la doccia avevamo nell’altro bagno un piccolo boiler di scarsissima capienza, cosa che ci obbligava ogni volta a docce velocissime e a lunghi turni di attesa, in attesa che l’acqua si riscaldasse di nuovo, visto che eravamo in cinque, sei con mio nonno, che, però, per fortuna, non si lavava mai perché era saldamente convinto che “l’acqua e il sapone consumano la pelle”.
Fu un Natale triste per me: con la mia vecchia casa avevo lasciato anche la mia infanzia, l’attesa felice delle vacanze, le serate tutti insieme, noi, Lola e sua figlia, a preparare dolci e tortellini, a scrivere le lettere alla Befana, i pomeriggi a giocare a carte o a tombola, le chiacchiere intorno alla tavola bevendo il caffè nel primo pomeriggio. L’odore di polvere nelle stanze disabitate dell’immensa casa di Lola ed il profumo di canfora che usciva dalle ante e dai cassetti degli armadi, ricordo struggente di quando ero una bambina quasi felice. Niente di tutto questo sarebbe mai più tornato.
La nuova casa era una vera baraonda: cose poggiate ovunque ed un disordine che richiese molti giorni di lavoro per essere domato. Non mi piacque fin dall’inizio e non l’avrei mai amata, questo era certo.

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