La stanza del filo bianco di Maria Luisa Cocchi 1° Classificata Premio Città di Viterbo -Tuscia Libris

di Maria Luisa Cocchi*

Chissà di quanti ricordi è custode la nostra mente!
Chissà come, uno di essi, torna a nuotare tra i nostri pensieri superando le barriere della frenetica quotidianità, per portarci in qualsiasi punto di un tempo inghiottito dal tempo stesso. Al di là delle spiegazioni scientifiche, della cosiddetta mappa cerebrale, accade. Accade indotto da stimoli, da arcani meriti o colpe di un profumo, un colore, una parola, una musica e come la saetta illumina il cielo, così il ricordo illumina persone, luoghi, forme, sfumature. Cattura e meraviglia quanto il fascino di un’aurora boreale. Presente e passato si sovrappongono, si è fisicamente qui, nell’adesso, ma un frammento del vissuto torna. Ricordare è più frequente quando sulle spalle si è depositata la polvere degli anni, si ha il meno delle forze, della fresca bellezza, quando non si lavora più e forse si riflette di più. Quando il valore delle cose, in primis il superfluo, non interessa e si guarda qualitativamente la propria esistenza, il cammino e non altro, perché come scommettere sul futuro, nessuno può.
Chiamiamolo il periodo della piena maturità in cui superficialità ed incoscienza non hanno humus per attecchire. In verità, la mappa della memoria, non ha età, si ricorda sempre ma con uno status emotivo, ricettivo molto diverso. Quando un ricordo affiora dalla mente o magari chissà, dall’anima ovunque sia e si recupera l’impalpabilità del “è stato” con il patrimonio del proprio sé, dell’io nella sua straordinaria unicità. La vita è un viaggio di milioni di attimi appesi come panni sotto un invisibile sole, in un angolo ristretto di universo: il nostro corpo. Non rende dorata la pelle, ma splende e pulsa, è sole della vita.
Tanto dire per ipotizzare come abbia potuto, un lenzuolo bianco da stirare con una piccola macchiolina sull’angolo, associarsi al un mio “è stato” e riportarlo.
Superba terra di Tuscia tra alture, prati, laghi e mare; rivedo Il monte Cimino, le colline decorate da lussureggiante natura, il cielo azzurro con nuvolette bianche che scivolano verso l’Appennino, le maree di albe e i tramonti tanto penetranti, il severo castello con casette accalcate sotto le sue mura grigie.
È solo il paese dove sono nata, ricco del vociare di bambini, di donne che tornano dalla campagna cantando, del profumo del pane appena sfornato, dei tigli in fiore, del garrire delle rondini, dell’intenso rosso dei gerani sui davanzali, del fischio del treno sempre puntuale, del suono della campana che richiama alla preghiera, di strade e vicoli, del canto d’acqua pura e fresca delle stupende fontane di Papacqua.
Un paese ricco di ulivi che paiono i saggi della terra con i loro frutti abilmente trasformati in oro nelle mense di ogni casa, di castagni austeri schierati come moltitudine di guerrieri a difesa di boschi della memoria del tempo e faggi che s’alzano al cielo, lo accarezzano come fratelli generosi. C’è lunga storia in questa terra quasi nascosta, trasudante di faticata vita, di travagliati periodi ed esplodente volontà di riuscire al meglio, c’è tradizione, arte ed inventiva.
Per 40 anni sono stata lontana, i mutamenti dell’ovunque non mi davano il coraggio di tornare anche per solo un breve passaggio e non ritrovare. Il sole della vita si è spento in molte persone, il vento del Nord le ha trascinate come foglie in un altrove che ancora non conosco, così il cuore si è fatto timoroso, rifiutava. Le meraviglie però, nitide e palpabili.
Ecco la piccola casa d’angolo, con quel portoncino di legno scuro e la chiave sempre sulla toppa, oltre una piccola stanza con due lunghe finestre.
È sabato mattina d’inizio luglio, fa caldo ma è piacevole, non afoso. Sto seduta sulla seggiolina davanti alla soglia di quella stanza, in silenzio guardo dentro e ascolto rapita mia madre e le ragazze che imparano da lei il mestiere di sarta. Sono tanti i loro discorsi, raccontano i sogni del futuro giorno speciale, di come lo vorrebbero, mentre stanno col capo chino sul tavolino, lì è steso un candido abito da sposa in raso. Hanno mille attenzioni, quasi fosse il loro, nulla deve violarlo. Ingenuamente mi chiedo come possibile se tutte indossano un grembiule bianco e lenzuola sono stese su ogni cosa, persino il pavimento! Straordinario guardarle in quel fare meticoloso sul piccolo capolavoro nato da un anonimo taglio di stoffa. Ho otto, forse nove anni, età in cui la fantasia corre veloce sollecitata da libri di favole e fiabe, da racconti di anziani, talvolta leggende o storie inventate al momento. Non è come adesso, allora niente televisione in casa, solo una piccola radio. Lì seduta, guardo le loro mani compiere il rituale del cucire, piccoli punti dati per giorni, uno dopo l’altro, sino ad unire, saldamente, pezzi all’origine senza identità invece membra di un modello immaginato per una specifica persona, una sola. Avevo imparato che la tensione si allenta dopo la prima prova, ancor di più alla seconda in cui, se tutto andava bene, si adagiava sui capelli anche il velo. Momento magico, ma non ho mai assistito, porta rigorosamente chiusa. Era affare tra la sposa e la sarta, solo loro due. Immaginavo questo sì, e capivo, guardando il volto della sposa quando usciva dalla stanza, se tutto bene o meno. Erano sempre raggianti. Sognavo ogni volta che veniva commissionato un abito da sposa e quanti ne ho visti da quella seggiola sul confine della stanza!
Potevo stare solo lì, andava evitato ogni rischio, certo involontario, di sporcare con le mie mani magari dopo aver usato le matite colorate. M’indispettiva, mi sentivo esclusa, forse un po’ trascurata, ma tutto svaniva distratta da quei movimenti che cambiavano a seconda del tessuto, se raso o pizzo o sangallo o tulle. La storia iniziava con il taglio del capo che abilmente mia madre operava spiegando alle ragazze il verso, il come e perché di ogni passo.
Finito il primo passo a ognuna era affidata una parte e da lì il via. Che belli gli aghi infilati nella loro cartina nera e oro, era scelta la grandezza in base a trama e consistenza del tessuto, a quel punto ognuna ne prendeva uno, lucente, quindi un ditale ben pulito. Nell’ago, con la cruna davanti agli occhi, infilavano il filo bianco candido, di cotone o cotone e seta. Il filo non era certo l’attore principale nella fattura di un abito da sposa, ma, per quanto potesse essere bello il tessuto, il modello, senza di esso impossibile procedere. Ogni giorno era compiuto lo stesso rito fino a quando, lunghi respiri e mani portate sul grembo, preludevano le parole: “attaccate il ferro”.
L’opera era compiuta e prossima la consegna.
Sul tavolo da stiro era appoggiato, in verticale, il ferro e quando caldo, mia madre meticolosamente dava l’ultima “spianata” alle cuciture, poi sfumava a dritto.
Anche quella volta.
La carta velina bianca, acquistata in cartoleria da una delle ragazze, serviva proprio alla stiratura leggera del raso specie nella parte sotto il corpetto. Stanca di stare seduta decido di andare in cucina a mangiare una pesca gialla, le prime della stagione, belle, grandi, polpose e profumatissime, per poi andare a vedere cosa stesse facendo mio fratello con gli altri bambini del vicinato.
All’ultimo morso odo un “Oddio” da togliere il fiato. Cos’era successo? Vado a sbirciare dalla porta, non capisco. Mia madre è seduta, con le mani sul volto, una delle ragazze piange e continua a dire “è colpa mia, tutta colpa mia”, le altre con la testa china, sono spaventate ed incredule. Sottovoce chiamo la mamma, non risponde. La chiamo ancora e nulla. D’improvviso, come avesse avuto una molla nella schiena, si alza di scatto, consola chi piangeva e energicamente dice:” Forza, non abbiamo tempo da perdere, troviamo una soluzione”.
Non mi siedo sulla seggiola, c’è troppa tensione nell’aria, però resto con la testa china verso l’interno. Da una frase ad un’altra comprendo l’accaduto, la carta velina, forse non di buona qualità e non controllata, sotto il calore del ferro da stiro aveva lasciato, sul davanti dell’abito, minuscoli puntini neri, davvero minuscoli, violando quel tanto preservato candore del tessuto.
Non era mai capitato.
Allora?
Nella mia ingenuità, non la vedevo tanto disastrosa, bastava rifare il davanti proprio come capitava a me quando, sbagliato il compito sul quaderno, staccavo la pagina e rifacevo. Ma quello non era un quaderno. Oltretutto ignoravo che il tessuto, costoso, era stato acquistato nel metraggio giusto per il modello, non poco di più, e in città. Non c’era il tempo di prendere il treno per andare, comprare, riprendere il treno e tornare, quindi rifare il pezzo danneggiato. Mia madre camminava avanti ed indietro.
Meglio togliermi dai piedi, me ne vado sull’uscio di casa con una domanda in testa “cosa accadrà ora?”.
Quel giorno non mi sentii chiamare per il pranzo, la casa era diventata una fortezza da cui tenersi lontano. Ma la pancia brontolava, avevo fame: potevo chiedere a chiunque del vicinato di ospitarmi a mangiare con loro, non lo feci. Piano, piano entrai in casa, raggiunsi la cucina, mi rifocillai con pane e pomodoro, mi piaceva tanto, tenendone una fetta anche per mio fratello seduto, anche lui, sull’uscio di casa. Gliela portai e spiegai in qualche modo l’accaduto. Buono, buono mangiò guardandomi di sottecchi. Non proferì parola, finì di mangiare e se ne andò a sedere su un gradino all’ombra, in attesa di veder spuntare un amichetto.
Da dentro non veniva alcun rumore, entrai e mi rifugiai in cucina. Ci rimasi a lungo finché il silenzio fu rotto dal rumore della macchina da cucire. In qualche modo mi rassicurò e continuai ad attendere.
Entrò Cleri, una delle ragazze, preparò il caffè, lo mise sul fuoco poi lo versò nelle tazzine con due cucchiaini di zucchero, quindi le mise nel vassoio e andò in corridoio. Mia madre e le altre, una alla volta, uscirono dalla stanza, bevvero e ritornarono dentro. Chiesi a Cleri cosa stesse accadendo, mi passò la mano tra i capelli sussurrando un “sta tranquilla” e andò.
Faceva caldo a quell’ora del pomeriggio; lavai le tazzine e la macchinetta del caffè. Potevo scegliere se andare in camera a leggere un libro, giocare con qualcosa, cercare un’amica, preferii stare ad un tiro d’occhiata da quella stanza. Allora uscii dalla cucina e mi accucciai a terra vicino alla porta. Senza volerlo mi addormentai, non so per quanto, mi svegliò un battimano. Ero indolenzita. Sporsi la testa dentro e con stupore vidi l’abito appeso. Ad alta voce mi venne spontaneo dire “ma qualcosa è diverso”. Scoppiarono a ridere, bello sentirle. Durante il taglio del tessuto erano avanzate pezzette e strisce di nessuna apparente utilità, poteva prenderle la sposa altrimenti andavano dentro un grande cesto con tanti altri avanzi di tessuto. C’era sempre qualche anziana che li chiedeva per farci di tutto, toppe, presine, tappetini e chissà che, nulla andava sprecato. Or bene quelle strisce di raso diedero l’idea a mia madre, di realizzare un motivo decorativo così da coprire ogni puntino nero. Pensai fosse ancor più bello, più particolare, nuovo, unico.
Finalmente sui visi stanchi, sugli occhi arrossati, si leggeva gioia e serenità.
Il disperato lavoro era durato oltre sette ore ma il risultato dava giustizia. Non mi sfuggì il volto di mia madre, segnato dalla tensione ma anche dalla soddisfazione. Quella volta, insegnò con i fatti a non scoraggiarsi piuttosto ad impegnarsi con volontà ed ingegno, lo insegnò anche a me!
Da quel giorno quella stanza per me diventò di diritto la stanza del filo bianco. Una giornata fuori dalla routine e non era finita, per la prima volta mi fu concesso di partecipare, con le ragazze, alla consegna dell’abito e del velo presso la casa della prossima sposa. Non ero in me, evento eccezionale, chissà perché, non ne vedevo motivo.
Era tarda sera, camminavo tenendo la mano di Angioletta perché Cleri, la più alta, teneva il vestito, Antonietta il velo, questi i nomi delle tre giovani donne.
Le cicale rompevano il silenzio, il profumo dei tigli inebriava, degli anziani sedevano sull’uscio di casa gustando il fresco prima del sonno. Il pianto di qualche neonato usciva dalle finestre attenuando il suono delle cicale. Mi parve tutto perfetto!
Per raggiungere la casa attraversammo i giardinetti del paese illuminati dalla fioca luce di alcuni lampioni, così fioca da scorgere una magica nuvoletta di lucciole. In un’altra occasione avrei cercato di prenderne qualcuna da mettere in un bicchiere capovolto sul davanzale della finestra, mio nonno diceva per richiamare le fate.
Una casa in festa ci aspettava tutta illuminata e con tante voci allegre.
Ci videro arrivare dalla finestra e fummo accolte da un’eccitazione generale, un “ohhhhh” dietro l’altro. Tolto il copri abito per l’emozione la sposa scoppiò a piangere ripetendo “è stupendo, è stupendo”. Stordita ed intimidita da tutte quelle persone, dall’aria di festa continuavo a dire grazie senza capire chi mi dava baci e bacetti, chi mi mise in bocca i dolci, chi infilò i confetti nelle tasche del mio vestitino e chi mi diede la bomboniera da portare alla mamma. Una delle ragazze poi, mi prese per mano e accompagnò a casa, senza ne avessi consapevolezza, ero tra le nuvole.
Il mattino seguente mi svegliai molto tardi, pensai di aver sognato tutto.
Che strano sogno.
Seduta sul bordo del letto, vidi il vestitino indossato quel sabato sulla sedia e con la coda dell’occhio qualcosa sul comodino. C’erano tanti confetti bianchi. Se sia sobbalzata di gioia e sorriso o cosa abbia pensato non lo so.
Ho davanti il lenzuolo non più da stirare ma smacchiare e rilavare.
L’adesso è qui, il presente s’impone. Il ricordo, magari nostalgico, è tesoro di un passato. Non sono più quella bambina ma una donna anziana, ho fatto il mio cammino, ho seminato e raccolto, dato ed avuto, guardato e visto, udito ed ascoltato, sognato e realizzato, perso e vinto.
La vita ha avuto il suo corso in un veloce viaggio. La casa d’angolo è ancora lì, ma da illo tempore non è più della mia famiglia. La mia mente, la mappa della memoria, la custodisce gelosamente e finché il sole interiore terrà caldo il mio corpo sarà solo mia, la stanza del filo bianco.

In memoria di mia madre.

L’Autrice

Nata a Soriano nel Cimino, ha vissuto e lavorato 44 anni a Milano, dove sono nati i suoi due figli e dove, pochi giorni fa, è nata anche la sua prima nipotina.
Ha 4 gatti ed un cane.
Ama tutte le forme di arte, adora la natura e non ha ancora deciso cosa farà da grande.
Sin da piccola ha avuto facilità a scrivere, è stata la forma espressiva di una timida, poi di un soggettivo e discreto contatto dell’anima con la vita socio culturale circostante.

Il racconto è incluso nella Antologia del Premio TUSCIA LIBRIS edita da Della Rocca Editore acquistabile sul sul sitowww.tusciaapezzetti.it/prodotto/tuscia-libris-antologia/

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