Tuscia in pillole. Pasqua in bianco e nero

di Vincenzo Ceniti*

Pizza di Pasqua

Pasqua primi anni Cinquanta. A mezzogiorno di quel Sabato Santo, alla sciolta delle campane, Padre Bonaventura, parroco dei Cappuccini a Viterbo – cotta merlata, stola e breviario in mano –, esce dalla chiesa di San Paolo affiancato da un chierichetto attrezzato di aspersorio, acquasantiera e borsetta per le elemosine e si dirige a passo svelto verso viale IV Novembre per dare avvio alla benedizione delle case che sarebbe poi proseguita nei giorni successivi in tutto il quartiere. Al rintocco delle campane, molti si fanno il segno della croce, alcuni si inginocchiano, i contadini interrompono il lavoro nei campi.

La Settimana Santa iniziava il lunedì precedente, subito dopo la domenica delle Palme, con le pulizie di Pasqua e l’acquisto degli ingredienti per le pizze. Mia nonna era tra le prime a procurarsi l’occorrente: farina, uova, latte, zucchero, liquore da dolce, burro, vaniglia, limoni, cannella e lievito di birra, come ricettario viterbese comanda. Facile ma faticosa l’operazione dell’impasto a mani nude sulla “spianatora” sistemata in un angolo della cucina.

Più impegnativa la lievitazione che superava le dieci ore e avveniva in più modi. L’impasto veniva sistemato sotto le coperte del letto col prete” (una sorta di scaldaletto in rame), dentro la madia munita di scaldino oppure sotto una coltre di panni di lana. Occorreva controllare costantemente il grado di lievitazione. Poi avveniva il delicato travaso in contenitori a bordatura alta e il passaggio al forno. Alcune “fornare”, dette le “portatore”, erano organizzate per prelievi a domicilio su appuntamento. Quella di via Mazzini a Viterbo nei pressi della fontana della Crocetta, per controllare il grado di cottura conficcava nella pizza uno spaghetto di miccia, residuato di guerra, che fungeva da spillo. L’ho vista fare con i miei occhi. Con la pasta che avanzava si preparava per i ragazzi il “Bracone” un pupazzo con occhi, naso e pancione su cui era ficcato un uovo. Per le ragazze la “Scarsella”, tipo borsetta con manico e uovo fermato da strisce di pasta.

Il Giovedì Santo, dopo la messa in coena domini, il Sacramento veniva esposto nel Sepolcro allestito di solito in una cappella o in un altare laterale della chiesa, con luci e fiori tra germogli di grano. Andirivieni di fedeli tra una chiesa e l’altra. Rigorosi turni di veglia organizzati dalle parrocchie assicuravano presenze, raccoglimenti e preghiere no stop. Era anche l’occasione per informarsi sulla buona riuscita delle pizze, fare la conta dei parenti in arrivo e scambiarsi dettagli sul menu della domenica di Pasqua.. Le campane delle chiese cessavano di suonare. Parroci e chierichetti si attrezzavano con tric trac (tavolette chiodate su cui si faceva rumore con un ferro) per annunciare le ore canoniche della giornata.

Il Venerdì Santo silenzio, astinenza e digiuno. Niente cinema (quel giorno erano chiusi) e nessuna manifestazione chiassosa o festeggiamenti ufficiali. Nelle chiese, nel primo pomeriggio si svolgevano le “Tre ore di agonia”. In quella di S. Ignazio in via Saffi a Viterbo, listata a lutto con tre croci a simboleggiare quella di Cristo e quelle dei due ladroni, si ascoltavano narrazioni sulla Passione e Morte accompagnate da nenie liturgiche. La chiesa, allora dei Gesuiti, fungeva in quegli anni da Cattedrale in quanto il Duomo di San Lorenzo era in restauro per i danni di guerra. Alla Trinità si teneva invece la cerimonia della Desolata. La sera per le vie del centro storico sfilava la processione del Cristo Morto: statua del Redentore deposto, seguita da quella dell’Addolorata con nutrita partecipazione di clero e fedeli. Partiva da S. Ignazio e raggiungeva tramite il corso Italia il Santuario di Santa Rosa.

Festosa la giornata del Sabato Santo con i botti di mezzogiorno in coincidenza con la sciolta della campane. Gran via vai nel centro storico tra il mercato di piazza del Gesù, via San Lorenzo, piazza del Plebiscito, via Roma, via Saffi, corso Italia e sosta obbligata davanti e dentro il Gran Caffe Schenardi. Scambi di auguri, sorrisi, strette di mano e programmi per la scampagnata di Pasquetta.

La domenica di Pasqua, santa messa, comunione e rituale colazione in famiglia a base di coratella, capocollo, salame, uova sode e di cioccolata, pizza e boccali di vino. A seguire passeggiata di smaltimento fino a piazza delle Erbe, nel centro di Viterbo, prima del gran finale con il pranzo di precetto, preceduto dalla recitazione del Credo. Menu tradizionale e consolidato: fettuccine a burro e sugo e agnello in più versioni: al forno con patate, sbrodettato, alla cacciatora o fritto in cotolette. Nel pomeriggio un bel film in bianco e nero – d’amore, d’avventura o da ridere (come si diceva) a seconda dei gusti – al Genio, al Corso o al Nazionale.

Il lunedì di Pasqua (Pasquetta) scampagnata con merenda a base di porchetta a monte Pizzo, nel parco di Villa Lante a Bagnaia, nelle campagne circostanti o in qualche casale dei dintorni da amici o parenti. Si andava a rompere la scarsella, dicevano i più giovani con un velo di ingenua allusione. A Blera ancora oggi si svolge a Pasquetta una lunga passeggiata di una ventina di chilometri tra andata e ritorno fino alla grotta di San Vivenzio, a Norchia, con appuntamento alle ore 7 del mattino davanti alla Collegiata All’arrivo santa messa e pranzo al sacco. Gli abitanti del posto fanno il cammino (negli anni passati alcuni anche scalzi) per farsi perdonare una calunnia dei loro antenati al vescovo Vivenzio nel V sec. che venne accusato di fornicare con la perpetua. Il povero religioso, del tutto innocente, se ne dovette andare eremita a vivere in una grotta, finché non venne a galla la verità.

Nella foto, due “fornare” di Viterbo alle prese con le pizze di Pasqua

 

L’autore*

ceniti

Console di Viterbo del Touring Club Italiano. Direttore per oltre trent’anni dell’Ente Provinciale per il Turismo di Viterbo (poi Apt). È autore di varie monografie sul turismo e di articoli per riviste e quotidiani. Collabora con organismi e associazioni per iniziative promo-culturali. Un grande conoscitore della Tuscia.

 

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