Le Case della vita.Via Romagnosi e la casa di campagna

Quanto più forte è la personalità di una donna, tanto più facilmente essa porta il fardello delle sue esperienze. L’orgoglio viene dopo la caduta.
Karl Kraus

“LA CURA”

In un pomeriggio di fine marzo 1986 varcai la porta di un nuovo ospedale. Arrivai in ambulanza. Sulla porta a vetri del reparto, in alto, si poteva leggere a chiare lettere “Oncologia Medica” e quella dicitura non lasciava alcun margine al dubbio. Per nessuno. Soprattutto per chi, come me, stava entrando in qualità di paziente.
Insieme a me c’era l’Uomo coi baffi: quel giorno aveva un’aria disfatta, gli occhi lucidi e le occhiaie profonde, come di chi non avesse chiuso gli occhi per dormire da giorni e giorni. Entrammo nella stanza che mi avevano assegnato. Mi misi seduta sul letto e cominciai a piangere a dirotto. La mia vita era finita. Che altro avrei potuto fare, se non piangere?
Entrò un’infermiera.
Voleva provare a sdrammatizzare – se mai in qualche modo fosse stato possibile – la situazione. Con un tono vagamente giulivo e salmodiante, mi guardò sorridendo e disse, scandendo bene le sillabe:
“…e questa bella bambina, è arrivata qui insieme al suo babboooo!”
La guardai, tra le lacrime e risposi gelida, fulminandola con lo sguardo:
“…veramente, questo è mio marito.” – indicando l’Uomo coi baffi.
Ci sarebbe stato da ridere a crepapelle per la gaffe, ma non ero nello stato d’animo giusto per farlo e ripresi il mio pianto. Inconsolabile. Chiusa nella mia monade di dolore.
Dopo qualche tempo entrò nella camera un giovane medico, forse l’uomo più bello che avessi mai visto: alto, dal sorriso luminoso, con un fisico allenato che i suoi trent’anni (o poco più) enfatizzavano. Aveva un magnifico accento siculo.
In altri contesti lo avrei guardato come credo che in quegli anni ciò facesse ogni fortunata mortale alla quale capitasse di imbattersi in lui nella quotidianità delle persone normali. Quotidianità? Ormai io non facevo più parte del gruppo delle persone normali, di quelle che guardavano, si interessavano, si innamoravano degli uomini belli come lui. Quelle persone vivevano. Io, ormai, stavo per morire.
Quello che era appena entrato nella stanza, quel sole luminoso ambulante, era in realtà il mio oncologo, un ricercatore che in quel momento stava facendo la spola fra quell’ospedale universitario, ed il Bethesda Institute, negli Stati Uniti.
Invece di consolarmi, quell’uomo bello e carismatico, per nulla colpito dalla mia disperazione, mi prese da parte e mi intimò di smetterla immediatamente con il pianto, altrimenti mi avrebbe mollato un ceffone. Disse proprio così.
Affermò – senza mezzi termini – che il mio atteggiamento vittimistico non mi avrebbe aiutato a guarire, anzi: avrebbe peggiorato le cose.
Mi invitò a concentrarmi sulla cura e a fare solo quello.
Lo guardai, stupita, ma anche furibonda. Come osava dirmi quelle parole? Che ne sapeva della mia sofferenza? Glielo dissi.
“Io, devo pensare a salvare la sua pelle, non posso preoccuparmi troppo dei suoi risvolti psicologici.” – mi rispose, asciutto e per niente piegato dai miei lamenti.
Lo odiai fin dal primo momento. Decisi che non mi piaceva per niente. No! Per niente! Smisi tuttavia di piangere.
Mi invitò ad accomodarmi nel suo studio e mi spiegò minuziosamente che cosa sarebbe stato di me nei mesi successivi. Disse che la situazione era grave, ma non disperata.
“Lei ha più del novanta per cento di possibilità di farcela. Se risponderà bene alle cure, potrà avere anche dei figli, tra qualche anno. Ecco perché si deve concentrare sulle cure e non pensare ad altro che a guarire. Questa sarà la sua unica occupazione, da questo momento in poi.”
(A questa persona solo apparentemente burbera e distaccata – e alla sua équipe – devo la mia vita.)
Dalla mattina successiva cominciarono le terapie, che andarono avanti per mesi e mesi. Ogni tre settimane, con una pausa di tre settimane. Poi si ricominciava.
Methotrexate, Ciclofosfamide, D-Actinomicina: ecco i nomi (incisi nella mia memoria ed indelebili per sempre, quasi come è accaduto con il numero inciso sulla carne viva dei deportati nei campi di concentramento) delle medicine che furono utilizzate. Le guardavo entrare nelle mie vene, dalle flebo, con quel loro colore giallo vivo, e le odiavo, perché, non appena entravano in circolazione, cominciava l’inferno. Smettevo di essere una persona, per trasformarmi in un anellide che si contorceva nella sofferenza.
Vomitavo ogni venti minuti per otto giorni. Giorno e notte.
Non riuscivo a mangiare nulla. Solo liquidi e quasi sempre sputavo fuori anche quelli. I sapori erano tutti diversi.
Fu durissima: durante il primo ciclo si crearono delle piaghe in gola e non riuscivo ad inghiottire nulla, nemmeno l’acqua. Sognavo di mangiare un panino col salame, ma non era possibile. Potevo solo pensare di farlo: arrivavo addirittura a percepire l’odore delle fette profumate mollemente adagiate nel panino, pensavo al piacere di masticare il pane fragrante ed era un po’ un tormento anche quello.
La cosa più tremenda di tutte, però, fu vedere che i capelli cominciavano a cadere. Una mattina ne trovai a centinaia sul cuscino. Decisi che non avrei sopportato oltre. Feci chiamare immediatamente una parrucchiera e le ordinai di raderli a zero.
“Prima che mi freghino loro, li frego io.” – mi dissi, asciugandomi le lacrime. Forse le ultime che versai a vuoto.
Da quel momento divenni una persona combattiva e risoluta.
Comprai dei bellissimi fazzoletti di seta, tutti colorati, che da quel momento divennero la mia capigliatura.
In quei mesi fu un turbinare di esami, TAC, stratigrafie, visite, analisi. Attese tormentate. La mia quotidianità, quella fatta di pigro far niente, di programmazione delle piccole cose di ogni giorno, scomparve nel nulla. Non ero più padrona del mio tempo, della mia giornata, dei miei mesi.
Non potevo stare a casa da sola: non ero in grado di badare a me, o alla casa. Mio marito doveva andare al lavoro e non poteva prendersi cura di me. Dovevo affidarmi a qualcuno.
Mi trasferii da mia suocera.
Meglio la campagna: la casa dei miei suoceri era l’ideale, dal momento che aveva un giardino grandissimo, l’orto, i cani, il silenzio, la pace.
Mia suocera fu stupenda.
Costruì intorno a me un bozzolo di benessere e coccole.
Quando tornavo a casa, spossata dalle cure, mi faceva trovare i miei cibi preferiti e mi costringeva a mangiare, anche quando non avevo nemmeno l’ombra dell’appetito.
Conoscendo il mio amore per il gelato, creò nel suo congelatore scorte immense di coppette già pronte da mangiare con i gusti che amavo di più e me ne faceva mangiare due o tre al giorno, perché, secondo lei, dovevo rimettermi in forze rapidamente, dal momento che tre settimane sarebbero passate presto e sarebbero seguiti otto giorni di digiuno e sofferenza.
Fu un percorso molto duro da affrontare, ma ne uscii bene.
Ci fu un’operazione finale, di rimozione della parte morta del tumore. Poi fui dimessa. Definitivamente.
“Ora, signora, lei è guarita.” – mi disse un giorno quella voce suadente, quell’uomo stupendo e odioso da cui era dipeso in quei mesi tutto il mio destino. E forse proprio per questo lo avevo odiato.
Ero guarita. Certo, ero guarita. Ora la mia vita poteva riprendere dal punto in cui era stata interrotta.
Forse.

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