Le case della vita Via dell’Orticello. Il Club-parte seconda

di Maria Letizia Casciani*

IL CLUB
(Parte seconda)

La sede invernale del Club era all’interno di un lungo edificio che si affacciava sulla piazza principale del paese. Chiusa la sede estiva della Villetta, a partire dall’autunno, quel palazzo antico diventava il luogo di ritrovo per decine di ragazzi e ragazze che, come me, trovavano lì molte cose, da fare e da dire.
Per quanto caotico ed imperfetto fosse – e lo era – il Club era un luogo di confronto e di discussione, oltre che di incontro e di appuntamenti per innamorati clandestini, come me.
Si entrava da una porticina discreta, poco visibile, che sembrava fatta apposta per proteggere gli innamorati che si muovevano nell’ombra – o, almeno, a me sembrava che le cose stessero così.
Prima di arrivare all’ingresso vero e proprio, si percorreva un lungo corridoio, lungo il quale era stato installato un telefono a gettoni, che non aveva mai un attimo di requie: c’era sempre qualcuno impegnato a parlare, appoggiato al muro, incurante del passaggio continuo di persone: chi parlava col fidanzato appena partito per il militare e voleva chiacchierare senza avere intorno le orecchie indiscrete della famiglia, chi cercava di fare pace con la fidanzata che lo aveva appena lasciato. C’era sempre una persona pronta a tenere occupato quel marchingegno.
Anche per me, che non ne avevo ancora uno in casa, quel telefono fu un alleato prezioso, perché mi consentiva in qualche modo di raggiungere il mio ragazzo dai capelli rossi, che abitava a sette chilometri dal paese; ne approfittavo in particolare in quegli interminabili pomeriggi in cui sapevo che non avremmo potuto incontrarci, quando, dunque, la mia nostalgia per lui superava il livello di guardia ed in me dilagava un senso di solitudine e di abbandono.
Dopo aver percorso una lunga scala di pietra, si entrava nel cuore del Club e ci si trovava dentro una grande sala, all’interno della quale troneggiava un televisore perennemente acceso, con il volume al massimo, davanti ad un divano su cui sedevano spettatori ciarlieri e litigiosi, che non seguivano quasi mai le trasmissioni ed impedivano di seguirle a chi avesse voluto farlo.
Accanto alla sala principale si apriva un lungo corridoio, sul quale si affacciavano diverse sale, sempre piene di ragazzi, ognuna delle quali era dedicata ad una attività: la sala dischi, la sala biliardo, la sala giochi, quella della segreteria.
Trascorrevo la maggior parte del mio tempo in sala dischi, perché amavo molto la musica e perché quello era il ritrovo ufficiale delle coppiette, che stavano lì ore ed ore a sbaciucchiarsi e a pomiciare, complici, quasi sempre, la musica e la luce, soffusa o lasciata provvidenzialmente spenta per creare atmosfera, se mai ce ne fosse stato bisogno. Ricordo ancora gli abbracci morbidi ed i baci che ho ricevuto tra quelle pareti.
La sala dischi aveva le pareti insonorizzate e possedeva un impianto molto potente, che permetteva di godere la musica fin nei minimi particolari. Luci soffuse e musica al massimo: niente di più bello per godersi l’amore. La densità di coppiette che trascorrevano l’intero pomeriggio a sbaciucchiarsi su quelle poltrone era notevole.
Anche per me quella sarebbe stata l’attività preferita: se solo avessi potuto incontrarmi con il mio ragazzo tutti i giorni, mentre spesso andava a finire che ci vedessimo nei ritagli dei ritagli di tempo, per colpa degli stramaledetti impegni di entrambi.
I miei erano tutti legati alla scuola: alle due e mezza tornavo a casa con l’autobus, pranzavo ed a quel punto erano più o meno le tre. Dovevo ancora iniziare a fare i compiti per il giorno successivo: il liceo classico di quegli anni imponeva un carico di lavoro notevole e non si poteva restare indietro con lo studio senza gravi conseguenze sui voti.
Ingollato l’ultimo boccone del pranzo, sparecchiavo ed iniziavo a fare gli esercizi lì in cucina; li sospendevo poco dopo per uscire, altrimenti si sarebbe fatto troppo tardi: sarei dovuta essere di ritorno per le sei ed avevo a disposizione pochissime ore, un paio al massimo, altre volte purtroppo, quando i compiti erano davvero tanti, ero costretta a restare a casa.
Il ragazzo dai capelli rossi non frequentava le scuole superiori, era impegnato ogni santo giorno con il ristorante che la madre gestiva da anni: insieme ad una sorella più grande, era lui che serviva ai tavoli, puliva, sparecchiava, si occupava del bar. Era orfano di padre ed aveva anche dei fratelli più piccoli da seguire: doveva occuparsi dei compiti di scuola e di mille altre cose che li riguardavano, essendo di natura protettiva e responsabile.
Il lavoro lo impegnava tutti i giorni fino al pomeriggio inoltrato, ma a volte non riusciva liberarsi per incontrarsi con me; il sabato pomeriggio e la domenica, in cui io sarei stata libera, accadeva spesso che non ci si potesse vedere, neppure per andare al cinema insieme, sempre a causa del suo lavoro e dei suoi impegni: le persone sceglievano il weekend per andare al ristorante a mangiare un buon piatto di pasta e lui doveva lavorare, perché quel lavoro era il sostegno di tutta la sua famiglia.
Non potevo raggiungerlo o incontrarlo nel suo locale, perché avevo il divieto di frequentarlo. Scalpitavo, per via di tutti questi ostacoli.
Le limitazioni che complicavano la mia vita mi sembravano altrettanti muri, impossibili da valicare: la mia esasperazione a volte diventava incontenibile. Questo era uno degli argomenti preferiti nelle discussioni con le mie amiche, che, pazienti, mi ascoltavano e mi davano consigli.
Me ne stavo pomeriggi interi dietro alla finestra della sala dischi, in attesa di vederlo arrivare dall’incrocio del viale con la strada statale. Guardavo con ansia ogni singola macchina. I miei amici, osservandomi, speso ridacchiavano e mi prendevano in giro. Allora, cercavo di distrarmi, ma era inutile. I minuti passavano, il momento di tornare a casa per me si faceva sempre più vicino: lui non arrivava ancora.
Alla fine arrivava, ma tardi, troppo tardi! Restavano pochi minuti per stare insieme. Il sollievo, vedendo apparire in fondo alla piazza la sua moto rossa o la macchina verde oliva, era guastato dalla frustrazione, dall’idea che, a quel punto, non c’era più tempo per dirsi nulla, per fare nulla, ce n’era appena per qualche bacio fugace e frettoloso. Poi, sarei dovuta scappare via di corsa.
Non appena compariva in sala dischi, con quel suo bel sorriso, con i suoi occhi verdi che si illuminavano solo per me, in quel preciso momento, mi trasformavo in un essere petulante: non riuscivo a fare a meno di lamentarmi di quanto poco potessimo vederci, di quanto mi mancasse, di quanto fossi triste, col risultato immancabile di guastare anche quei pochi minuti che ancora ci restavano da trascorrere insieme.
Era un ragazzo molto paziente, ma a volte la sua pur ampia dose di tolleranza terminava e si arrabbiava per quello che dicevo, per come lo dicevo: litigavamo, ma erano nel frattempo arrivate le sei e dovevo tornare a casa, con quella frattura non ricomposta nel cuore. Mi sentivo ed ero infelice.
Non poteva accompagnarmi a casa: quindi non c’era modo di rimediare con un abbraccio fuori di lì e mi avviavo piena di tristezza, lasciandolo in compagnia dei nostri amici. Scendevo quelle scale con il cuore pesante.
Nelle buie sere d’inverno correvo trafelata per le strade vuote, maledicevo la mia sorte, la mia casa, la mia famiglia, me la prendevo, mentalmente e concretamente, con tutto quello che si opponeva alla mia felicità, secondo me, insidiata dal mondo intero.
Arrivavo a casa: era ormai quasi ora di cena, ma avevo ancora davanti a me molte ore di studio, tanti compiti da finire e nessuna voglia di farli, perché il mio cuore era in frantumi e non riuscivo a concentrarmi. Me la prendevo con tutti. Il mio carattere si faceva sempre più aspro ed aggressivo. Tutto mi irritava.
Cominciò in quel periodo il mio rapporto conflittuale anche con il sapere, in particolare con lo studio: mi sembrava che fosse inutile perdere anni a studiare, mi convincevo che stavo solo perdendo il mio tempo sulle declinazioni, sull’aoristo, sulle traduzioni, mentre le mie amiche del paese, che nemmeno frequentavano le scuole superiori, sembravano felici e realizzate, lontane anni luce da interrogazioni e compiti in classe, libere di vivere l’amore.
Essendo “fidanzate a casa”, non avevano l’ansia di dover incontrare i loro ragazzi di nascosto, come ero costretta a fare io.
Aveva senso studiare? Aveva senso una vita vissuta così? Il mio dilemma si trascinò per anni, alla fine dei quali trovai miracolosamente una scappatoia, più o meno imprevedibile, allora.

 

Per chi volesse leggere Il Club- parte prima:

Le case della vita: Via dell’Orticello- Il Club

*Maria Letizia Casciani è nata in un paese della Tuscia. Ama molto leggere, in particolare romanzi e saggi. La scrittura è una passione che coltiva nei ritagli di tempo rubati al lavoro. Vive e lavora a Viterbo.

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