La casa di via San Sebastiano.Vita Cittadina

di Maria Letizia Casciani

Casa” è la pelle di chi, quando ti abbraccia, ti fa sentire che sei nel giusto posto,il tuo

Accanto al portone della casa di via San Sebastiano c’era la vetrina di un’impresa di pompe funebri. A volte, stando affacciata alla finestra che dava sulla strada, mi divertivo a contare le persone – uomini soprattutto – che, passando davanti a quelle vetrine, facevano le corna, o toccavano gli attributi per scaramanzia.
Il magazzino era all’interno dell’androne del palazzo e non di rado capitava di incontrare i becchini che portavano sulle spalle una bara, come se si trattasse già di un corteo funebre. La prima volta che mi accadde di vederli sfilare così impettiti, provai una grande impressione, ma mi abituai presto a quello strano e lugubre traffico, fino ad arrivare a non farci più caso..
Nella grande piazza, vicinissima alla casa, tutte le mattine si animava un mercato, pieno di banchetti, dove si vendevano verdura, frutta, pesce. Spesso vagavo tra le bancarelle, per fare la spesa, come una vera casalinga: a mala pena conoscevo i prezzi, ma imparai presto a distinguere i venditori di merce conveniente da quelli che provavano ad approfittarsi di gente inesperta come me.
Cominciai a cucinare e, dopo alcuni tentativi abbastanza maldestri, in pochi mesi riuscii a diventare una discreta cuoca. Amavo moltissimo rientrare reggendo in mano le buste della spesa e, una volta tornata, mettere tutto in ordine, con la mente concentrata alle cose buone che avrei preparato.
Le scale di quella casa erano molto antiche e consumate. Abitavamo al secondo piano di quel palazzo carico di storia. La porta dell’ingresso era vecchia e pesante: da una parte aveva un chiavistello ancora funzionante. Una volta chiusa, dalle sue fessure si vedeva chiaramente il pavimento del ballatoio, ma a me non importava un fico secco di queste piccole imprecisioni, o di avere una porta nuova. Ero felice così.
La finestra della cucina si trovava molto in alto, rispetto al pavimento ed affacciava sull’androne; la stanza in cui mi muovevo per preparare i pasti era abbastanza spartana: una semplice cucina a gas, un piccolo frigorifero, un lavello di marmo, dei ripiani ricavati da un armadio a muro, coperti da una tendina verde a quadretti.
Si cenava in soggiorno ed amavo apparecchiare in modo accurato quel lungo tavolo, posizionato in una stanza in cui c’erano solo luci basse, a creare un’atmosfera raccolta ed accogliente.
In pochi mesi la mia vita era radicalmente cambiata: da studentessa a “quasi” signora, con impegni quotidiani, anche casalinghi, da programmare e portare a termine. Questo mio cambiamento non era stato indolore: ogni volta che, in genere la domenica sera, lasciavo il paese, una parte del mio cuore era segnata dai sensi di colpa. La mia famiglia non era affatto contenta della mia decisione di andare a convivere con un uomo, per giunta tanto più grande di me.
Per la prima volta in vita mia, comunque, avevo deciso di fare di testa mia ed ero andata a vivere con l’uomo coi baffi, anche se dietro questa decisione non si intravedeva la benché minima ombra di un progetto matrimoniale. Questo aspetto in particolare generò un enorme scandalo in casa, tra i parenti, tra i conoscenti della mia famiglia.
Mia madre era su tutte le furie. Mi aveva proibito decisamente di fare quel passo, ma le sue proibizioni – per quanto mi riguardava – passarono come l’acqua sulla pietra.
Riuscii a resistere alle sue suppliche, alle sue minacce, alle sue frasi ad effetto (“Vedrai, quando mi avrai fatta morire di crepacuore!” – mi aveva detto una sera, mentre stavo per andare via, nella speranza – vana – di farmi desistere) e tenni duro. Andai a vivere in città.
A guardarlo con gli occhi di oggi, fu un bell’azzardo: all’inizio degli anni Ottanta, in particolare nei paesi, vigeva ancora un totale conformismo nei comportamenti individuali, ma a me il giudizio degli altri non importava. Se fino ad allora avevo imparato una cosa, quella cosa era che l’indipendenza, soprattutto per una donna, viene prima di tutto.
E così, sebbene con quella piccola nube nel cuore, cominciai in questo modo la mia vita cittadina.
Ero ancora una studentessa universitaria e continuai – anche se con una certa debole convinzione – a frequentare le lezioni nella Capitale. Nel frattempo ero attirata da mille altre cose: conobbi molte persone, cominciai a praticare nuove attività e mi convinsi ancora una volta che forse studiare non era poi così importante.
Non smisi di dare esami, ma cominciai a saltare sessioni di esami. Ero affascinata dalla novità di quella vita, per me del tutto inedita, fatta di pranzi da preparare, di cene insieme agli amici, di piccoli e grandi viaggi, di mille cose interessanti da inventare ogni giorno.
Io e l’uomo coi baffi trascorrevamo le nostre serate a parlare, a leggere, ad ascoltare musica classica. A volte lui si metteva a dipingere i suoi amati acquerelli, oppure elaborava tavole per il lavoro. Ero estasiata da quella vita con lui: la sua posatezza mi trasmetteva una grande calma. Il suo amore forte e silenzioso mi dava una forza che mai avevo provato prima. Mi convinsi che quelle era la felicità, un sentimento, uno stato d’animo, mai provati prima.
A volte mi trascinava ad ascoltare dei concerti di musica classica e fu a partire da quegli anni che imparai ad amarla. Quando ero da sola in casa ascoltavo per ore ed ore sinfonie e quartetti, concerti e sonate. La filodiffusione fu per me una grande maestra: negli anni, a forza di ascoltare, riuscii ad acquisire un buon orecchio che mi consentiva, anche se non avevo mai studiato musica, di collocare con certezza un brano entro un dato periodo. Riuscivo – per gli artisti maggiori, come Bach, Mozart o Beethoven – ad individuarli immediatamente, subito dopo l’ascolto delle prime note.
In quella casa meravigliosa dai soffitti affrescati e dalle grandi e fredde stanze trascorsi anni felici e divertenti, tra i più belli della mia vita.

COMMENTA SU FACEBOOK

CONDIVIDI