“Mi sento a casa quasi ovunque, e quasi sempre fuori posto, soprattutto a casa mia”. A dirlo è un ragazzo viterbese di nome Francesco Mecorio. La sua casa attuale dà sugli esotici grattacieli di una metropoli di ventiquattro milioni di abitanti, lontana novemila chilometri da Viterbo, città in cui è nato e cresciuto, e dove ritorna quando può. E mentre in Italia è ancora notte fonda, Francesco inizia la sua giornata lavorativa a Seoul, capitale della Corea del Sud, dove insegna all’Università Hongik, laurea specialistica di Arti dello Spettacolo. Classe 1979, sguardo in cui aleggia un sorriso perenne, Francesco è di una simpatia travolgente e vanta un curriculum impressionante in un particolarissimo settore: la voce umana. Il suo titolo infatti è Professor of Voice and Performance. “Per semplificare, diciamo che mi occupo della formazione vocale di attori e cantanti, alcuni principianti, altri celebrità”, racconta. “Delle mie quattro cattedre, tre sono sulla voce cantata e una sulla voce parlata. Ho tenuto corsi sugli aspetti più artistici, ma la cosa che mi riesce meglio è insegnare la tecnica”. L’affascinante lavoro di Francesco è quindi esplorare le possibilità della voce dei suoi allievi attraverso il training muscolare, per controllare e migliorare la performance di chi si trovi a cantare o a recitare. Oltre all’insegnamento, Francesco Mecorio è anche vocal coach. “E’ un lavoro leggermente diverso dalla docenza, in quanto generalmente si rivolge a cantanti professionisti che hanno bisogno di ulteriore supporto per gestire repertori impegnativi, o per correggere atteggiamenti vocali scorretti”.
Il cammino che l’ha portato a vivere e a lavorare in Corea del Sud è stato movimentato. “Ho iniziato a spostarmi e viaggiare per studio già dai tempi del liceo, quando a 17 anni studiavo canto in una scuola di Roma mentre frequentavo il liceo scientifico a Viterbo. Dopo due esami di ammissione all’Università Paris 8 di Parigi, a cui non ho dato seguito per – ironia della sorte – paura di andarmene dall’Italia, ho frequentato l’Università della Tuscia, tra rinunce e trasferimenti, peripezie ed odissee formative. Ma tutto ciò, sebbene mi abbia insegnato a studiare, a pensare, poco c’entra con il lavoro che faccio attualmente. Quello l’ho imparato al di fuori delle Università: nelle scuole private di musica, nei seminari, nelle conferenze in Italia e all’estero: Regno Unito, Stati Uniti, Australia”. Non è un caso che buona parte della sua attività in Corea Francesco l’abbia imparata all’estero. Il suo lavoro, in Italia, non esiste. “Attenzione, non è la Corea ad essere particolare. Il mio lavoro esiste ed è riconosciuto in Gran Bretagna, in America, in Australia, in Giappone e chissà dove ancora. Ma in Italia no”. In un settore come quello dello spettacolo, fondamentale è ciò che si apprende assistendo agli spettacoli dal vivo. “E infatti, molto ho imparato nei teatri e nei pub pieni di fumo, quando i cantanti facevano due ore di concerto in mezzo a una coltre di catrame e nicotina, ma con il pubblico che ancora li ascoltava e riconosceva i brani in repertorio, anche se non erano usciti da un talent. Parlo come mi nonno parlava del dopoguerra, eppure non ho neanche 40 anni!” aggiunge sorridendo Francesco.
Gli domandiamo quale sia la differenza principale fra lavorare in Italia e lavorare in Corea. “Fondamentalmente la differenza principale è che in Corea si lavora! Il tasso di disoccupazione oscilla tra il 3% e il 4%, e questo naturalmente ha conseguenze sociali e culturali notevolissime. Ogni lavoro è possibile. La competizione è alle stelle, ma l’arte e lo spettacolo sono considerati lavori a tutti gli effetti. In Corea chi ha studiato e ha competenze specifiche viene retribuito come merita; si hanno a disposizione intere biblioteche e l’accesso gratuito alle più grandi riviste scientifiche del mondo, di solito costosissime; sale prova gratuite, biglietti scontati per gli spettacoli, un salario gigantesco se paragonato a quello italiano, una pensione che puoi riscattare quando vuoi nel caso in cui voglia lasciare la Corea e avere la restituzione di tutti i contributi versati. In Corea si ha il rispetto per quello che fai, per come lo fai e per come ci sei arrivato”. Lo sguardo divertito di Francesco Mecorio mette a fuoco poi la vita quotidiana di un Paese non poi così lontano dal nostro, se non geograficamente. “Secondo me i coreani sono gli italiani del continente asiatico. Tra i popoli dell’Asia sono quelli più calorosi, più aperti, gentili. Ma sono pur sempre asiatici, nel bene e nel male. E con i gap culturali non si scherza. In Corea puoi dormire con la porta aperta e non ti succede niente; puoi lasciare il cellulare o il portafogli sul tavolo del ristorante, allontanarti e ritrovarlo al tuo ritorno. Ma guai a pronunciare la parola sbagliata nel posto sbagliato, o ad interpretare differenze culturali come espressione di maleducazione. Un mio allievo una volta mi ha detto “sono stato in Italia in vacanza! Tutte le macchine erano sporche e impolverate. E’ stato uno shock culturale!”. In Corea puoi specchiarti sui cofani delle macchine! Il pensiero è andato alla mia auto e mi sono sentito uno zozzone… poi però mi sono consolato pensando alla discutibile pratica coreana di sputare nei posacenere! Gap culturale”.
I primi tempi per Francesco non sono stati facilissimi. “Non parlavo una parola di coreano, non sapevo cosa mangiavo, fare la spesa al supermercato era un po’ come andare a caccia nella giungla. Non sapevo esattamente cosa avevo acquistato e se quello che stavo per mangiare fosse realmente commestibile. E perdersi in città era la cosa più facile del mondo. Ora ho trovato il mio equilibrio: ho imparato un po’ di coreano, a muovermi da solo nelle varie situazioni e soprattutto a distinguere lo shampoo dall’ammorbidente!”, continua sorridendo. Vivere e lavorare in un paese così diverso dal nostro, soprattutto, significa imparare a non dare mai niente per scontato. “Significa interrogarsi sulla propria identità, farsi nuove domande e smettere di farsi quelle vecchie” aggiunge Francesco. “Significa cambiare il palato, usare le bacchette al posto della forchetta tanto che poi non sai più mangiare la carbonara, togliersi le scarpe più spesso del solito, cambiare il rapporto con i soldi, con la sicurezza, con il meteo, con i vestiti, con le relazioni umane. Nel mio caso specifico significa anche imparare a convivere con la minaccia di una guerra nucleare.. ma questa è un’altra storia!”.
Inevitabile domandare a Francesco Mecorio i rapporti con la sua città di origine. “Non nego che vivendo così lontano e in un Paese così diverso dall’Italia ho riscoperto l’orgoglio nazionale. La storia del nostro Paese è qualcosa di straordinario, e non parlo solo di arte o cultura, ma soprattutto dei principi su cui si fondano la nostra società, il nostro Stato, la nostra nazione in quanto tale, conquistati dopo rivoluzioni, battaglie, sconvolgimenti sociali e atti di coraggio. Noi diamo per scontato tutto ciò, ma dovremmo esserne invece grati e orgogliosi. Certo i problemi sono tanti, la nostra economia va male e le prospettive per il futuro sono sempre meno e sempre peggiori. E – lo dico con la morte nel cuore – vivendo lontani questo si percepisce ancora di più. La nostalgia quando sto in Corea mi divora. La primavera italiana mi manca un sacco. Ma mi mancano anche i ritmi, le atmosfere, i rapporti umani, i negozi, i divertimenti, le cose da fare. La nostra città è una delle più belle del mondo. Quando dico ai miei amici coreani e inglesi che a Viterbo vivo in un palazzetto all’interno di un quartiere rimasto intatto dal 1200 sono tutti impressionati, e quando mi vengono a trovare restano a bocca aperta. Ma noi lo diamo per scontato, e non va bene”. Tra incertezza e sfiducia nei confronti di un futuro sempre più difficile da costruire in patria, il nostro Paese si impoverisce sempre di più di giovani talenti che trovano la loro strada altrove. “Ai giovani viterbesi e italiani in generale vorrei solo dire di non perdere mai la fiducia, ma di ricordarsi che bisogna lavorare sodo per ottenere ciò che si desidera, e che quando un sogno si realizza non è detto che non porti con sé bocconi amari o sacrifici. Viaggiate, conoscete, imparate a non dare niente per scontato. Fatevi domande, non giudicate tutto confrontandolo con il luogo da cui venite, e non cercate risposte facili. E soprattutto se volete andare via dall’Italia siate pronti a cambiare, a non tornare più quelli che eravate e a non essere mai completamente qualcos’altro. Non so se di questi tempi serva più coraggio per partire o per restare, ma credo che l’importante sia non aspettarsi qualcosa dal cielo e piuttosto scavare con le mani la terra sotto ai propri piedi: se si fa così non è importante dove si è… l’acqua prima o poi la si trova!”.