Era il primo dell’anno, Giovanna voleva andare a messa ma come ogni anno si chiedeva se il primo era considerato festa religiosa oppure no, come il 26 dicembre: non sapeva mai se doveva vedere l’orario tra le Messe feriali o quelle festive. E puntualmente sbagliava.
Anche quest’anno.
Stanca dei bagordi della notte precedente, aveva allungato il periodo del riposo sul divano e procrastinato l’orario della Messa, guardò su internet e vide che ce n’era una alle 19. Perfetto. Decise per quella.
Mise su il cappotto e si recò alla parrocchia indicata.
Ma la chiesa era chiusa, la Messa era stata alle 18.
Ecco aveva sbagliato un’altra volta, forse aveva visto la domenica successiva oppure era scritto 18 invece che 19. Che stress.
Quante volte la distrazione e la velocità con cui leggeva le notizie le avevano fatto prendere un orario per un altro, un giorno per un altro, quante volte aveva perso delle belle occasioni per questo…
Ritornò così alla macchina, attraversando l’antico quartiere sì illuminato coi decori natalizi, ma pressoché deserto. Giusto qualche raro turista.
Si mise alla guida e tornò verso casa. Passò dai quartieri periferici, che non avevano niente di particolare se non l’essere attraversati da strade di scorrimento perennemente intasate ma stasera no, buio totale, tutti rintanati a casa; poi risalendo viale Trieste il buio della sera, intenso come quello della notte, un ricordo di tombola di sacrosanta tradizione di quel giorno passando davanti alla casa di alcuni zii-un vivo sapore di antico, ormai lei era grandicella-sparuti passanti che bighellonavano nella grande piazza che stava attraversando, in un freddo siderale, in gruppi di due: tutto questo, nel
silenzio della sera, le faceva riconoscere e assaporare la sua città, era come ritrovare una espressione conosciuta sul volto di una persona cara. Una sensazione rassicurante.
E così il tempo che scorreva- alla fine era passato un altro anno- era nell’ordine delle cose, non lasciava crucci né rimpianti, non intristiva, non impensieriva, laconicamente si accompagnava ai semafori, al rettifilo, alle curve.
Quando all’improvviso, con la coda dell’occhio, vide un manifesto con sopra raffigurato forse un bambino messo un po’ in diagonale, con una mano e il braccio che tendevano in alto, verso il cielo, qualcosa come il piccolo principe.
Quel tendere la mano verso il cielo, quasi a staccarsi dalla terra, le diede la percezione del fantastico, ma nello stesso tempo di un’azione di grande coraggio, l’idea della sfida del mettersi in gioco, del credere in qualcosa e cercare di ottenerla, e subito si sentì un po’ codarda, perché spesso, nella vita, aveva invece pensato che non era poi così importante raggiungere quella meta che si era prefissata, togliendosi delle possibilità, rinunciando a priori.
Cercò di non pensarci, ma tra un cambiare dagli abbaglianti agli anabbaglianti e viceversa, faceva capolino quella figura e la disturbava un po’.
Non si era impegnata abbastanza nella vita? Ma no, certo che lo aveva fatto, ma sempre per le situazioni contingenti dentro le quali viveva, quelle del momento, quelle prossime, senza mai spiccare veramente il volo, dimenticando i sogni e i desideri della giovinezza, non ascoltando il grillo parlante che era dentro di lei o forse al contrario lo aveva ascoltato troppo, quando con quella sua saccenza le bisbigliava “prudenza, prudenza! e se poi non ce la fai? Se ti rendi ridicola? Sei sicura che ne valga la pena?” e subdole cattiverie di questo genere.
Così quando era stata lì lì per intraprendere qualcosa di nuovo, di grande per lei, si era un po’ ridimensionata, intimidita, afflosciata. E non era andata oltre quello che la vita le offriva a portata di mano, senza impegnarsi a fondo, senza mettersi in gioco, senza rischiare.
Non era un bel bilancio di fine anno anzi di inizio, intanto era arrivata davanti al cancello di casa, rimase indecisa sul valutarsi, in bilico tra l’assoluzione e la colpevolezza, ma sicuramente con moltissime attenuanti; si avviò a preparare la cena.


























