Cristina Manara, tra architettura e design, crea alcuni degli yacht più belli

di Donatella Agostini

Cristina Manara: il cognome ci riporta per associazione ad un altro Manara, Milo, sinonimo di raffinatezza e originalità del tratto. Ma se oggi parleremo di creatività non sarà in riferimento alle arti figurative, piuttosto all’eleganza architettonica delle linee e all’eccellenza italiana del design: elementi determinanti dell’attività lavorativa di Cristina. Viterbese, classe 1995, questa ragazza dolce e determinata svolge la professione inconsueta di “yacht designer”. Per comprendere di cosa si occupa uno yacht designer, si deve immaginare un’imbarcazione come un’entità estremamente complessa. Dalla motorizzazione all’impiantistica, dalla scelta dei materiali all’arredamento interno, tutto concorre alla creazione di veri e propri gioielli della nautica, per i quali l’Italia detiene da sempre il primato nella progettazione. Cristina Manara, una laurea in Architettura a Roma Tre e una specializzazione al Politecnico di Torino. «La mia passione per l’architettura navale è iniziata a partire dal secondo anno di studi, grazie ad un corso opzionale compreso nei piani di studi dell’Università», racconta. «L’idea di unire il mio amore viscerale per il mare alla mia passione mi entusiasmava, così decisi di seguire un master di yacht design che mi avrebbe portato ad approfondire alcuni argomenti e ad aprirmi sbocchi lavorativi nel settore».

Dal 2022 Cristina collabora con uno studio di progettazione navale di Roma. «Lavoriamo per un cantiere navale, The Italian Sea Group, con sede a Massa Carrara. Una realtà emergente e importante, che ha acquisito gran parte dei cantieri italiani. Ci occupiamo di imbarcazioni di ottanta-cento metri». Questi megayacht, dalle forme aerodinamiche e dagli interni confortevoli e raffinati, sono delle vere e proprie “ville sul mare”, la cui realizzazione è lunga e articolata: «La prima fase è quella della progettazione estetica, che arriva dai grandi designer italiani. La seconda fase è quando ci arriva sul tavolo il progetto e il render: la realizzazione grafica di un’idea, che noi dobbiamo tradurre in un progetto fattibile, coordinando la parte ingegneristica, meccanica, architettonica, correggendo criticità e raccordando le varie professionalità. Passiamo dai disegni architettonici delle zone dei marinai, più standardizzate, alle zone guest, che riguardano l’armatore e gli ospiti, dove invece si spazia nelle tendenze più innovative. Il risultato del nostro lavoro va in mano infine a professionisti che sviluppano la terza fase esecutiva, quella della costruzione vera e propria. Un processo che dura due anni, anche di più se la metratura è grande». I grandi yacht si legano spesso alla dimensione della celebrità e dei vip. «Di recente abbiamo lavorato alla barca sponsorizzata da Armani. Ma in generale non conosciamo l’identità dell’armatore committente. Anche se a volte è possibile intuirne la nazionalità dai layout e dai materiali richiesti».

Cristina ha optato per un settore professionale, per così dire, di nicchia, conseguendo una formazione che l’ha contraddistinta e le ha offerto un approdo lavorativo: un esempio per i tanti studenti di architettura. «Certamente, è opportuno specializzarsi in settori all’avanguardia», afferma. «Quello che io ho scelto è un tipo di progettazione che però deve piacere: si lega più al design che all’architettura vera e propria. E si deve sempre tenere conto che quello che si fa all’università non è ciò che si andrà poi a fare nel mondo lavorativo. Ci sono adempimenti, vincoli, pastoie burocratiche che spesso mortificano la creatività e la passione». Se a ventinove anni Cristina può vantare una posizione professionale di tutto rispetto, è stato per un insieme di fattori. «Tendenzialmente sono fatalista, però sono anche molto testarda, quindi dal momento in cui mi sono messa in testa che volevo fare questa professione, ho fatto tutto per farla. La fortuna non credo sia determinante… ma sicuramente ne ho avuta nell’avere genitori come i miei, che mi hanno sempre sostenuta. C’è stato un pizzico di coraggio: dopo cinque anni di architettura, nel cambiare settore pur rimanendo nell’ambito, ti fai delle domande: non è che starò buttando via cinque anni di studio? Ci sono stati tanto impegno e dedizione, e ora mi sento serena, mi piace quello che faccio».  Soprattutto perché quello che Cristina fa ha a che fare con il mare: «E’ la mia linfa vitale. Il mare è la mia passione, fin da bambina, quando con la mia famiglia trascorrevamo le estati in Calabria. Amo il mare nella sua dimensione intima, introspettiva: per questo ricerco spiagge e luoghi non scontati, rifuggendo dalla folla e dalla confusione». I suoi impegni di studio e poi lavorativi hanno portato Cristina a vivere in luoghi diversi. «Mia madre mi chiama la zingara, la gitana: lavoro fuori, ma i miei piedi sono saldamente piantati a Viterbo. Mi sento molto viterbese». Il suo essere orgogliosamente viterbese l’ha portata a scegliere, come argomento per la tesi di laurea, la quintessenza della viterbesità: Santa Rosa, e la realizzazione di un museo multimediale a lei dedicato. «La tecnologia ci offre delle straordinarie opportunità, anche in tema di allestimenti museali. E il trasporto della Macchina, dal punto di vista della dinamicità e dell’emozionalità, non si rende facilmente con un museo tradizionale, statico, dalla concezione superata. Per non parlare dell’oggettiva difficoltà di realizzare uno spazio museale che accolga le Macchine a dimensioni reali! Nella mia tesi avevo pensato ad un percorso studiato, tra realtà virtuale e “stanze” immersive dedicate alla vita della Santa, a cosa fosse la Macchina – perché noi viterbesi lo diamo per scontato, ma non lo è altrettanto per chi è di fuori –  e al percorso. Il mio progetto è rimasto sulla carta, ma un domani, chissà… E chissà se un domani realizzerò uno dei miei sogni di bambina, realizzare il bozzetto per la Macchina. Richiede tanto tempo e impegno, e ancora non si è presentata l’occasione». Cristina ama Viterbo, ma vivendo fuori ha l’obiettività per sottolineare quello che ancora non va nella sua città d’origine. «Sono sempre stata amante di piazza del Duomo: credo che sia esteticamente una delle più belle d’Italia. Nelle piazze di tutte le città però ci sono localini dove ti puoi sedere, prendere un caffè o un aperitivo, goderti la visuale… Possibile che a Viterbo in tutti questi anni non siamo riusciti a fare altrettanto? Forse perché per splendere una città ha bisogno del senso di comunità. E qui mi sembra che un po’ manchi».

Pronipote di una delle tre sorelle Tiburli, famose a Viterbo per il loro atelier dedicato ai cappelli, Cristina ha sempre respirato creatività e cura per i particolari. La storica bottega è oggi portata avanti dai genitori di Cristina, Miriam e Luciano, e dalla sorella Alessia. Una famiglia caratterizzata da un’imprenditorialità a forte impronta femminile, un orgoglio “rosa” che si rivela anche nel dettaglio finale di un termine. «Preferisco essere chiamata architetto», conclude. «Se usi “architetta” finisci per sottolineare una differenza che in realtà non c’è. Anzi, in questo campo secondo me sono più portate le donne, perché la progettazione navale è organizzazione di una miriade di elementi diversi. Ogni scelta che fai è importante e determina altre scelte ugualmente importanti. Devi essere organizzato e preciso, e in questo le donne non le batte nessuno».

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