Un ponte tra Italia e Papua Nuova Guinea, l’evoluzione della viterbese Michela Bianchi

di Sara Grassotti

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Michela l’abbiamo conosciuta attraverso l’esperienza che era in procinto di affrontare lo scorso mese di marzo. In partenza con direzione Vanimo, nella costa occidentale dell’isola Papua Nuova Guinea per realizzare il suo progetto di comunicazione e innovazione sociale. Ci eravamo riproposti di farci spiegare, o meglio, raccontare al suo ritorno questa avventura, che rappresentava molto di più  di un viaggio di andata e ritorno.

Ed eccoci qua a riprendere il filo del discorso.

Ho 25 anni, tondi tondi. Sono nata a Viterbo nel 98, l’11 marzo, ma sono cresciuta a Celleno, nei colori della Tuscia. Credo che le piccole realtà provinciali ti donano una visione diversa della vita, perché il tempo scorre più lento e sei un po’ più libero, per quanto si possa dire. Ti permette di approcciarti senza troppi schermi a dinamiche che generano curiosità: di verità, di bellezza, di risorse e spazi da colorare”. 

La prima domanda sorge spontanea, cosa ha portato una giovane viterbese tra i villaggi di Papua Nuova Guinea?

Vorrei dire che è stata tutta una coincidenza, ma non so più se è solo questo. L’aneddoto però è buffo. Era poco prima del lockdown, ero a casa e vedevo camminare ogni giorno nella via accanto alcune suore, avevano più o meno la mia età e alcune mi sembravano così giovani che non capivo come la loro storia le avesse portate a una scelta così radicale. Decido quindi di presentarmi, accendere una telecamera e farmi raccontare la loro storia, il loro perchè. Iniziano poi a parlarmi di missioni, parola che da sempre mi affascina e incuriosisce. Mi nominano tanti paesi, alcuni dell’Africa, molti dell’est, ma uno in particolare mi rimane incastrato negli occhi: Papua Nuova Guinea.

E cosa accade?

Torno a casa e mi metto a leggere un po’ di informazioni, finisce lì fin quando qualche giorno dopo coincidenza, algoritmo o perchè doveva andare così, mi ritrovo un follow su Instagram di un’orchestra di bambini giovanissima. Apro il profilo e scopro essere una realtà in Papua Nuova Guinea. Inizio a seguirli e poco dopo entro in contatto con il fondatore, padre Miguel De La Calle, che mi racconta della sua missione: sconfiggere la violenza con la musica.

Ne nasce un’amicizia oltreoceano?

Sì e quando decido di partire come volontaria arriva il Covid. Passano due anni e in un esame di comunicazione visiva deciso di portare un progetto sulla Papua Nuova Guinea. Creare qualcosa che poteva davvero realizzarsi mi ha spinta a riprendere in mano tutto e partire. Il mio intento era solo quello di testimoniare, raccontare dell’orchestra e aiutarli a creare contatti. Poi è successo qualcosa in più.

Il luogo dove ti sei fermata è Vanimo, quale è stato l’impatto e come si colloca lì un progetto di comunicazione e innovazione sociale?

Forte, in ogni senso tu possa declinarlo.Vanimo è il capoluogo della provincia, una cittadina di circa 9.000 abitanti, con solo due strade a croce che delineano l’area, tantissimo verde, l’oceano che costeggia, i villaggi intorno e tantissima gente per strada. Un po’ come un grande villaggio, ma molto più dispersivo. Il progetto si focalizza sui villaggi intorno per una ragione principale: comunicare e ottenere fiducia da nuclei più piccoli è più semplice e porta a risultati più concreti. Ogni villaggio ha un leader che comunica le attività, quindi se sei ben accetto da lui riesci a creare qualcosa di concreto con le persone del villaggio. 

Chi sono i sostenitori del progetto?

Sicuramente Radio Maria of Vanimo, per cui ho lavorato e la Fondazione Its Servizi alle imprese che mi ha aiutato a rendere il mio progetto uno stage oltreoceano.
È un progetto che vede l’appoggio della Chiesa Cattolica e del vescovo di Vanimo, Francis Meli, pur avendo io stabilito con i missionari di voler mantenere una comunicazione laica.

Il il tuo più grande sostenitore è stato Miguel De La Calle?

Nello specifico il  missionario fondatore dell’orchestra che quando mi ha sentita disorientata e un po’ spaventata prima di partire, ha reso ogni mio dubbio naturale, come se io perdessi energie del 20% e lui mi donasse il suo 20% con parole semplici e positive. Credo sia stato un semplificatore. Ha creduto nella mia idea da subito e non potevo non portarla a termine. 

Come si è concretizzato questo percorso?

In realtà è molto semplice: non ho accantonato un’idea. Ho fatto ricerca, scritto il progetto, trovato i fondi e, una volta accordata con le persone che mi avrebbero ospitata, ho solo fatto la valigia. La valigia più leggera di sempre tra l’altro, mi sono superata!

In fondo è stata una permanenza breve, cosa ti ha colpita di più della popolazione, usi e costumi, dissonanze?

Un mese e mezzo è abbastanza se sai cosa vuoi fare, ma Papua è l’isola dell’imprevedibile! Il tempo ha un valore diverso, nessuno è di corsa, persone e natura si muovono lentamente e questo credo sia un fattore prettamente naturale. Le temperature sono altissime tutto l’anno, c’era un’umidità fissa intorno al 90%, chiaramente non c’è aria condizionata e comfort per rilassarti. Dico questo per primo perché credo sia un elemento che si tende a non calcolare quando si parla di paesi non sviluppati. Lo sviluppo richiede ingegno, lucidità, energie, non è semplice in quelle condizioni. Mettici anche che non c’è un sistema di elettricità pubblica, non c’è acqua e devi procurarti tutto da solo. Certo, per loro è normalità, ma immagina un pannello solare per ogni famiglia che cambiamento potrebbe portare.

Quindi un progetto di comunicazione orientato nello sviluppo sostenibile?

Ho sempre il timore a parlare di sviluppo sostenibile perché il limite tra rispetto della cultura e occidentalizzazione è labile.

Puoi farci un esempio?

Nessuno di loro nei villaggi possiede un bagno in casa, per quello c’è il fiume. C’è la parte degli uomini e la parte delle donne, è ben organizzato e rispettato. Più di una volta mi sono seduta al fiume a parlare con queste donne. C’era chi faceva il bagno accanto a chi lavava i panni, chi i piatti, chi si faceva una maschera mentre i bambini correvano qua e là e tutto aveva un equilibrio meraviglioso. Percepivo la forza che c’era, il non giudizio, il far parte di una grande famiglia, la naturalezza e la profondità di un rituale. Quindi chi stabilisce se avere una doccia, dei sanitari e uno specchio è vivere meglio? Poi se mi chiedessi se credo sia necessario ti direi di sì, per un fattore di igiene, ma sarei comunque combattuta perché non è detto che l’evoluzione, anche in termini urbanistici, debba stravolgere la natura e le tradizioni. Serve equilibrio e salvaguardia.

Quali sono le grandi contraddizioni e le sofferenze più palesi?

Forse la non progettualità. La quasi totale assenza di visione del futuro. Questo lo vedi in termini economici: ogni venerdì arriva lo stipendio e le persone tendono a spendere tutto velocemente. Mi capitava di vedere persone con lo smartphone ma con una casa senza tetto, perché l’esigenza di voler stare al passo con il resto del mondo supera la progettualità che può donare la visione di futuro: mettere via i soldi, far studiare i figli, curarli… Ma è un concetto che applichi solo quando riesci a vederlo il futuro, quando hai un motivo.

Indicaci un’esperienza palpabile…

La Queen of Paradise Orchestra sta portando risultati: i ragazzi vedono i loro miglioramenti, credono nella musica e si sentono parte di un qualcosa che somiglia ad una società. Quando hai una responsabilità e qualcosa ti appassiona il futuro lo vedi.

La tua comunicazione è molto allineata sui social, ben costruite le stories in Instagram, sono gli strumenti privilegiati per far conoscere al mondo un popolo e un’isola dalle tinte contrastanti?

Sicuramente la combinazione immagini-didascalia o ancora meglio i video, aiutano a immedesimarsi e immergersi nella situazione velocemente per una componente strettamente emozionale, molto più di come accadrebbe con un articolo. C’è poi da tenere in considerazione il fattore velocità: vedere stories e post su Instagram richiede poco impegno…  i social hanno un potere immenso ma sta a noi decidere come utilizzarli: nel mio caso raccontare storie di luoghi e persone e creare vicinanza tra due realtà così diverse senza strategie o canoni mi ha fatto scoprire persone interessate al progetto e straordinariamente umane.

Il progetto, encomiabile, mira ad aiutare la popolazione nel luogo di origine, le persone adulti e bambini che hai avuto modo di conoscere e intervistare ambiscono a fuggire o a rimanere?

Rimanere. C’è un’intervista mai pubblicata a un ragazzo di 21 anni in uno dei villaggi più poveri, il Banana Camp, in cui parliamo proprio di questo. Mi ha detto che non sarebbe mai voluto scappare dalla sua terra. Voleva diventare ricco “come un bianco” – cito letteralmente – e rimanere lì con la sua gente. Non nascondo però che quasi ogni bambino alla domanda “quale è il tuo sogno?” ti risponde con gli occhi al cielo “diventare un pilota”  perchè è l’unico modo per scoprire il mondo, vedere cosa c’è oltre quella piccola parte di terra chiusa in due strade. E’ un posto meraviglioso, sembra davvero il paradiso, ma per scegliere dove stare devi conoscere anche altro. Forse per scegliere, in generale.

Quanto l’eco sostenibilità, la difesa della natura possono essere un richiamo essenziale su questi territori incontaminati? Pensiamo alla Foresta che lambisce il mare il cui sottofondo della natura, sono impressi nei contenuti della pagina Instagram del progetto (png.new)…

Il problema sussiste perché, nonostante la natura sia ancora incontaminata e padroneggia il territorio, camminando nelle strade ti accorgi di una grande necessità: non c’è una gestione pubblica della raccolta rifiuti, non c’è raccolta e smaltimento, quindi i rifiuti sono ammucchiati nelle valli e a volte incendiati.

Le contraddizioni di un paese che in pochi sanno che esiste…

A Vanimo vedi grandi cartelli della vecchia campagna elettorale, dove si invita a votare per una città più democratica e pulita, ma la realtà è che dopo le elezioni nessuno si è presentato in città, non c’è nessun tipo di raccolta pubblica, nemmeno i secchi. Rendere le persone consapevoli dell’impatto che hanno i rifiuti nella loro casa è importante. Soprattutto quando la loro casa ha quel livello di responsabilità: le foreste della Papua Nuova Guinea, insieme all’Amazzonia sono i polmoni di questa terra.

Tra i progetti c’è Festival del cortometraggio, Pacific Waves Festival, ideato per avvicinare ed educare ai temi dello sviluppo sostenibile e del rispetto ambientale.

La prima sera, nel villaggio ho deciso di proiettare un documentario sull’ecosostenibilità piuttosto d’impatto. La cosa che mi ha stupito di più è stata vedere lo sguardo di un’intera comunità attento sullo schermo per due ore. I bambini erano tutti impressionati dal vedere come la plastica finisca letteralmente nel corpo dei pesci e come bastano pochi gesti per ridurre di tantissimo l’impatto. A fine documentario, mentre sistemavamo l’attrezzatura, ho visto gruppi di adulti e bambini girare per il prato con le torce per raccogliere ogni rimasuglio di plastica o carta. Per me è stato un goal pazzesco.

È una possibilità di fare comunità attraverso l’uso appropriato della tecnologia?

Ho provato ad unire nelle serate di Festival la loro tradizione, attraverso balli in costume tipici e musica strumentale del posto  ad informazioni nuove, utili per migliorare la condizione della vita. La tecnologia va utilizzata in queste zone, non per stravolgere, ma per intrattenere portando cose nuove: che siano idee, informazioni, nozioni o semplice ispirazione.

C’è anche il laboratorio di scrittura creativa di testi musicali, creato per le bambine ospiti della casa rifugio di Lujan, per promuovere l’espressione artistica e la valorizzazione delle donne nella società… Ha una buona frequentazione?

Il laboratorio è nato spontaneamente una mattina in cui una delle ragazze, con un passato piuttosto complesso, ha smesso di parlare. Si è chiusa e nessuno riusciva a trovare il modo giusto per farla sfogare, esprimere. Erano tutte nella loro grande sala in un clima un po’ teso, accendo la cassa e faccio partire “A change is gonna come” nella versione dei Fugees e sono uscita. Dopo un po’ sono rientrata con dei fogli e ho chiesto loro di raccontarsi. Su 30 ragazze più della metà ha partecipato, anche la ragazza in questione. Sono uscite storie fortissime, parole che sicuramente a voce non avrebbero fatto emergere. Chiaramente c’era chi faceva resistenza, ma la musica è così…

L’esperienza continua?

Ad oggi non c’è nessuno che continua a scrivere con loro, ma sto lavorando per continuare a distanza questo piccolo laboratorio e fare in modo che qualcuno faccia squadra con me, anche perchè ricevo messaggi da loro molto spesso. È una piccola rivoluzione dar spazio alle donne in alcune zone del mondo, se poi è in rima e a tempo può diventare una hit la loro voce.

Come immagini il tuo futuro rispetto a questa esperienza di viaggio? Qual è la cosa che ha più fissato nella tua mente, nel tuo cuore?

Sicuramente ho capito che ogni cosa è possibile se la si fa con i giusti presupposti e buone cause. Lavorare nel mondo della comunicazione molto spesso significa concretizzare l’astratto e questo può farti sentire disorientato, soprattutto oggi dove definirsi sembra aver preso più valore di quello che di concreto si fa. Partire da sola e trovarmi ospite di un popolo meraviglioso mi ha fatto dimenticare ogni paura che prima di partire sentivo, mi ha fatto sentire nel posto giusto, nel mio tempo, con le mie idee che prendevano forma e superavano un confine non solo geografico. Sarà banale ma posso dire  che ho imparato a dare forma ai sogni senza timore. È una figata prendersi il diritto di farlo, ripaga sempre. Anche fosse solo il sorriso di una signora del villaggio che ha capito qualcosa in più del tuo perchè.

Il web ha modificato per sempre i rigidi equilibri tra diverse aree della terra, in ragione del fatto che ha abbattuto lo spazio ed il tempo, due variabili che hanno favorito da sempre la lentezza ed il limite con la quale le diverse culture si sono miscelate tra loro. Il tuo progetto trova quindi una maggiore fattibilità nel creare realmente un ponte tra Italia e Papua Nuova Guinea?

Io credo moltissimo nella mia generazione. Abbiamo vissuto un cambiamento sociale importante e questo ci ha sviluppato un’attenzione e una sensibilità non indifferenti, che unite all’alto sviluppo tecnologico possono abbattere la variabile più radicata: la paura del nuovo, del diverso. Quindi sì, io credo nella fattibilità di un ponte tra Italia e Papua Nuova Guinea, già lo vedo e vedo lucidamente ciò che ci lega come popoli. Non siamo affatto così diversi. Ma di questo ne parlerò a breve…

Ci sono prospettive secondo le quali un confine può evocare grandi sfide, emozioni, scoperte e desiderio di superarlo. In una parola si tratta di “evoluzione”. E’ questo il piano di una viterbese eccellenteMichela Bianchi.

Canale social: Pagina Instagram del progetto new.png: png.new.

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