Tuscia in pillole. L’oste

di Vincenzo Ceniti*

Fratelli Aquilanti

La figura dell’oste ci intriga e la riesumiamo volentieri per evocare quei ristoratori  in pectore dei tempi passati, antesignani degli operatori di oggi che offrivano cibo ed alloggio in taverne  equivoche e  malsicure ai malcapitati avventori di passaggio. Ai tempi di Mozart e del suo viaggio in Italia, con sosta anche da noi, Viterbo ne contava una decina a presidio di locali dalle insegne più colorite: Osteria dell’Angelo,  Osteria della Luna, Osteria dei Muli, Osteria della Posta, Osteria dei Tre Re.  Gli osti gestivano servizi approssimati  e grossolani offerti a prezzi “mobili” a seconda delle saccocce del cliente, comprensivi magari dei favori di mogli o fantesche compiacenti. E’ l’oste della malora di antica  memoria.

Ma saremmo ingenerosi se non includessimo tra loro anche quegli onesti operatori dell’accoglienza che con il loro duro lavoro sono saliti a rango di ristoratori qualificati,  in aziende familiari solide e professionali, che attraverso gli anni hanno rafforzato il made in Italy offrendo ambienti confortevoli e pietanze legate ai prodotti del territorio.

Nelle nostre zone, nei primi decenni del dopoguerra, ne abbiamo conosciuti molti, da Acquapendente a Bolsena, Montefiascone, Tarquinia, Tuscania e Viterbo, alcuni dei quali sono rimasti nella memoria. Hanno gestito locali che oggi non ci sono più (a parte qualche eccezione), essendo stati trasformati in banche, abitazioni, supermercati e magazzini.

Iniziamo dal nord, da Acquapendente, dove il ristorante “Milano” gestito dai  fratelli Otello e Umberto Squarcia col padre Ottorino, compariva stabilmente nelle guide di tutto il mondo. anche per l’ubicazione strategica sulla Cassia, a metà strada tra Firenze e Roma. L’albo d’oro (composto di ben 30 volumi) era griffato dai più noti vip del tempo, da Eva von Braun a Walt Dysney. Specialità della casa il minestrone che fece esclamare a Margaret d’Inghilterra “Wonderful!” , i “bichi” con aglio, olio e peperoncino e l’agnello allo scottadito.

A Bolsena le anguille arrosto annegate nella vernaccia, che costarono il Purgatorio dantesco al pontefice Martino IV, si gustavano presso il ristorante “Al lago da Amedeo” appostato, vista lago, al termine di viale Colesanti dove oggi si trova il Royal Hotel. Amedeo, della folta dinastia dei Leoncini, era basso e riservato e se ne stava sempre rintanato in cucina. Inebrianti il coregone alla griglia con lacrime di extravergine d’oliva, le anguille nella duplice versione in umido e arrosto e le fritture di lago contornate dalle profumate verdure del posto.

Est! Est!! Est!!! a parte, Montefiascone vantava tre ristoranti da copertina. Al  “Caminetto” di Silvio Fanali si godeva il più bel panorama dell’Alto Lazio con una veduta mozzafiato del  lago di Bolsena. Doppio asterisco per le pappardelle affumicate: bastavano a giustificare un viaggio. Da parte sua il ristorante “Cesare alla Cavalla” di Cesare Salviati rispondeva con uno spartito stellare, guidato da tortelloni ai funghi e arrosti alla griglia. “Rondinella” (prima maniera ante 1967)  gestito da Venanzio Nicolai con la moglie Elena in cucina, garantiva come minimo le fettuccine al lansagnolo e i tordi allo spiedo (allora si poteva) o il pollo arrosto. Senza contare il rosso di cantina riservato ai clienti affezionati.

A Tarquinia, a fianco del museo archeologico di palazzo Vitelleschi, regnava il ristorante “Giudizi” dei fratelli Giulio e Isauro. Rimangono un sogno  i rigatoni all’etrusca , i carciofi della Maremma alla giudia e i ferlenghi alla griglia. Furono proprio i Giudizi  (siamo alla fine degli  anni Quaranta) ad aprire il primo ristorante al Lido col nome di “Nuova Gravisca” dove facemmo le prime conoscenze con la zuppa di pesce, gli spaghetti alle vongole, le fritture e i molluschi olio e limone.

Pietro Vincenti, il popolare sor Pietro di Tuscania non aveva rivali col suo ristorante “Al Gallo” in pieno centro storico. Lo costruì subito dopo la guerra nel posto dove c’era un gallinaio  La moglie Maria manovrava tra i fornelli e lui gironzolava tra i tavoli accuditi con agilità dal fedele  cameriere Ughetto che ad ogni cliente ricordava di aver servito di persona il re di Svezia Gustavo VI Adolfo in occasione delle sue campagne archeologiche nel Viterbese. Si fermava qualche volta anche a dormire. Il sor Pietro custodiva gelosamente un conto, pagato dal sovrano di propria tasca. Dalla cucina uscivano zuppe di verdure e di fagioli, tagliatelle al ragù e alla lepre, galletti arrosto, selle di agnello con aromi dell’orto e via mangiando. Il locale era anche rinomato per il delizioso “squajo”  di cioccolato secondo una ricetta rimasta segreta.

Ed eccoci a Viterbo con le suites La Quercia e Bagnaia. Nella piazza delle Erbe del capoluogo, sosta abituale di carrozzelle e punto d’incontro domenicale di sensali, s’affacciava il ristorante “Antico Angelo” gestito da Gervasio Morini, un faccione rotondo con folte sopracciglia, un po’ calvo e occhioni acquosi  inclini alla furbizia. Si era costruito per i clienti un sorriso virtuale di circostanza capace, tuttavia, di improvvisi lampi di spontaneità. Preparava piatti esclusivi: risotto alla Gervasio, spaghetti a cacio e pepe, bollito con le carote viterbesi, agnello alla cacciatora.

Sua maestà il ristorante “Aquilanti” gestito dai fratelli Vittorio e Giuseppe, con le mogli Agostina e Ludovina a presidio della cucina, si trovava a La Quercia al posto della vecchia Osteria del Villaggio avviata dal padre Luigi agli inizi del Novecento. Il locale faceva la differenza per ampi spazi interni, arredamento, guardaroba, bar, servizi igienici, sala banchetti, salette riservate, sagrestia dei vini,  qualità dei camerieri. Nel ricco menu, mutevole da stagione a stagione, si fanno rimpiangere i ravioli ricotta e spinaci fatti in casa, i lombrichelli alla viterbese, la carne alla griglia, la frittura alla viterbese. Clientela vip, da Luigi Einaudi ad Alberto Sordi.

Infine Bagnaia, dove il ristorante “Checcarello” era sinonimo di “tonnarelli”. Non ditemi come si facevano perché nessuno lo ha mai capito. Si sa solo che il gestore di quegli anni, Ubaldo Serafini, faceva utilizzare alle donne in cucina (la madre Maria e la moglie Piera) salsicce casarecce, burro, parmigiano, pepe e pasta di casa tagliata in formato curiolo. Oltre a questa delizia, ricordiamo a memoria i crostini di beccaccia, il pollo alla cacciatora e i funghi porcini dei Cimini.

caminetto

Sorelle Re Costantino Grecia Albergo Milano anni '50
Le sorelle del re Costantino di Grecia Irene e Sofia davanti al Milano di Acquapendente

                

Nella foto cover, I fratelli Vittorio e Giuseppe Aquilanti de La Quercia 

 

L’autore*

ceniti

Console di Viterbo del Touring Club Italiano. Direttore per oltre trent’anni dell’Ente Provinciale per il Turismo di Viterbo (poi Apt). È autore di varie monografie sul turismo e di articoli per riviste e quotidiani. Collabora con organismi e associazioni per iniziative promo-culturali. Un grande conoscitore della Tuscia.

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