Pietro Vanni, “Chiuso ai vivi”

Pietro Boschi

Pietro Vanni (1845-1905), viterbese, ha vissuto la sua epoca privo di spirito progressista. Appartenente a una ricca famiglia borghese e istruitosi in un collegio di religiosi a Siena, quest’uomo non si è nutrito degli ideali risorgimentali e men che meno  ha accolto le istanze innovatrici della più avanzata arte italiana. Egli è stato soprattutto un pittore di soggetti religiosi, perlopiù interprete di un accademismo ereditato dal suo principale maestro, il senese Cesare Maccari.

Vanni artista da relegare in una tradizione figurativa segnata dal provincialismo? Vanni attardato divulgatore d’una pittura quasi o del tutto avulsa da ogni novità proveniente, per esempio, dalla toscana di Giovanni Fattori prima, o dal Trentino di Giovanni Segantini poi? Sì, questo fu lui. E tuttavia in mezzo a tante sue opere accademiche, portatrici di un romanticismo stanco e patetico, ve ne sono alcune trasfigurate da quella cosa ideale, misteriosa e imprevedibile che non si riesce a definire se non con una sola parola: bellezza.

Poche, pochissime, le opere di Vanni degne di ammirazione. Però ci sono, ci sono perché l’arte può sussistere anche quando non vessillifera del più innovativo tra i linguaggi visivi: miracolo della bellezza e sua imprevedibilità. Ecco perché Vanni: esempio di chi ha saputo elevarsi al rango di artista senza salire sul treno  – bello e orribile mostro, come lo definì Carducci – della modernità più spinta e pionieristica. Quanto appena affermato si può capire visitando uno dei luoghi esteticamente più pregnanti della città di Viterbo, l’ottocentesco cimitero di San Lazzaro.

Una piccola chiesa, che di questo cimitero è il cuore, costituisce il luogo in cui l’artista ha lavorato dal 1891 al 1895. Su committenza diretta del Comune di Viterbo, Vanni ne decora anche piccole porzioni esterne. Ma una bellezza bizzarra e cupa, composita e singolare, rampolla solo nel silenzio cimiteriale interno a quelle mura. Varcata la soglia d’ingresso, si è subito posti innanzi alla parete absidale dove campeggia l’affresco del Cristo Crocifisso, quest’ultimo assicurato alla Croce per mezzo di veri chiodi di metallo (fa sorridere pensare che una ventina d’anni dopo o poco più, seppur basandosi su presupposti lontanissimi da quelli per cui Pietro utilizza i chiodi, il futurista Gino Severini dipingerà un ritratto polimaterico con baffi e bavero di velluto anch’essi veri). Dunque il fondale absidale e il Crocifisso, si è appena detto. Su quel fondale la composizione è divisa dal pittore in due registri sovrapposti. Nella parte più bassa sta una natura brulla e spettrale, una landa svuotata del pneuma così come i polmoni di Colui che la sovrasta. Oltre il paesaggio oscuro, l’orizzonte si rapprende tutto in poche e sfilacciate strisce di tramonto giallo-arancio. Di quel tramonto non esistono riverberi, la luce che emana è schiacciata da un cielo azzurro-violaceo che ha la pesantezza e l’impenetrabilità del piombo. In quel cielo impossibile, qualcosa pare tuttavia muoversi. A dare l’impressione del moto è un turbinio di angeli accorati; spinti dalla disperazione e dal dolore, essi tentano di dissimulare l’immobilità angosciante dello spazio provando a rianimarlo. Sono angeli, questi del Vanni, che evocano l’espressionismo violento ed esasperato degli spiriti celesti presenti in non poche Crocifissioni trecentesche e del Quattrocento tardo gotico. La loro disperazione passa attraverso la concretezza di corpi tridimensionali, tuttavia annullata da una sostanza tetra che li scolora e li appiattisce. Il turbinio, quel moto vorticoso innescato dai voli angelici, è solo un’illusione. A ben vedere, non c’è nessun reale movimento che conferisca una tensione dinamica alla scena. Tutto è stasi. La Crocifissione è un ingranaggio spento.

A dispetto del programma iconografico dell’intero ciclo decorativo (mirato all’affermazione del trionfo della Croce e della luce perpetua di Gesù vittorioso sulla morte), qualcosa di profondamente spettrale caratterizza le parti artisticamente più convincenti dell’apparato decorativo; spettralità sublime, risolta in immagini prodotte da una pennellata corposa che spalma colori desaturati.

Un che di fantasmatico, dopotutto, pertiene anche alle ventiquattro testine-ritratto in terracotta che in alto, aggettando sul vuoto dell’invaso chiesastico, decorano le cornici con le Virtù Teologali e Cardinali. Partendo dallo studio di volti reali Vanni le modella con tecnica rapida, caratterizzandole una ad una con sorprendente varietà di espressioni e fisionomie. Ventiquattro testine che, pur lambendo talvolta un vivace caricaturismo, preservano una segreta qualità funerea.

Incantevoli e inquietanti sono poi le figure che popolano l’altro tra i dipinti più interessanti tra quelli di San Lazzaro, la Resurrezione della carne. Collocato sulla parete sinistra, l’affresco presenta due scene disposte una sull’altra. In quella inferiore è l’attimo in cui i morti risorgono e si riappropriano del loro corpo; nella superiore si assiste invece alla loro danza festosa, descritta con un campionario di ritmi e movenze la cui fluida eleganza riecheggia certe figure botticelliane in movimento. Eppure l’intero dipinto è pervaso da una sostanza di nuovo segretamente mortifera, benché alcune evidenze iconografiche ne ribadiscano e ne rafforzino il significato letterale (sono per esempio presenti dei cipressi, allusione alla vita eterna dopo la morte). I danzanti appaiono completamente immersi in un’atmosfera cromatica fatta di un rosso innaturale che sembra esalare dalle oscurità della terra. Quelle figure che si tengono per mano, in un effimero girotondo, non sono realmente risorte: la loro carne è un’allucinazione. A muoversi al ritmo di chissà quale musica sono degli scheletri, cadaveri travestiti da vivi! Il loro andare è vano come vano è il vorticoso volo degli angeli dipinti nell’abside. A suggerire tale senso di morte è un originale connubio di forme e colori, una bellezza sottilmente perversa che, né decadentista né simbolista, penetra gli occhi e arriva all’anima.

Se si tralasciano alcune notevoli incisioni, il Vanni più convincente è dunque proprio quello “mortifero” riconoscibile in certe parti della decorazione di San Lazzaro. Lì, mentre i lavori procedevano, l’artista affisse un cartello con su scritto «Chiuso ai vivi». A più d’un secolo di distanza, quella dicitura potrebbe suonare quasi come una dichiarazione di poetica.

 

Pietro Boschi, storico e critico d’arte laureato in Conservazione dei Beni Culturali e Ambientali presso l’Università della Tuscia. Svolge attività di consulenza storico-artistica per il Consorzio delle Biblioteche di Viterbo. Insegna discipline storico-artistiche all’ABAV – Accademia di Belle Arti Lorenzo da Viterbo.

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