I quarant’anni dell’Unione Buddhista

Filippo Scianna,*

Il 17 aprile 1985, a Milano, nasceva l’Unione Buddhista Italiana. Celebrarne oggi i quarant’anni significa ripercorrere la storia di un cammino fatto di Maestri, praticanti, persone e comunità che, crescendo, hanno intrecciato relazioni con il territorio e accompagnato il progressivo ingresso del buddhismo nel pluralismo confessionale del nostro Paese.

Dalla stagione pionieristica degli anni Ottanta al riconoscimento istituzionale, fino al consolidamento delle proprie strutture e all’ampliamento del proprio raggio d’azione, l’UBI ha intrapreso un percorso che oggi la rende un interlocutore autorevole per le istituzioni, un punto di riferimento per i Centri che vi fanno capo e un soggetto capace di incidere in molteplici ambiti della società.

Non è stato un cammino agevole, va detto.
Negli anni Settanta il buddhismo è giunto in Italia come una brezza leggera in un paesaggio dominato da voci antiche e presenze radicate nel territorio.

Non ha trovato porte chiuse, ma sguardi interrogativi e una certa cautela culturale.
Non era una religione “di casa”: non parlava di peccato, ma di ignoranza; non di dogma, ma di esperienza diretta. Non offriva verità rivelate ma sentieri da esplorare e percorrere.

Eppure, in quella diversità di linguaggio, molti italiani hanno riconosciuto un suono familiare: il desiderio di verità oltre le illusioni, di pace autentica, di cura.

Col tempo, i preconcetti hanno ceduto il passo all’accoglienza di un insegnamento che ha suscitato un interesse via via crescente.

I protagonisti di queste diverse stagioni sono stati, senza dubbio, i Centri che fanno capo all’UBI: nove al momento della fondazione, diciotto l’anno successivo, settanta oggi.

Essi rappresentano l’essenza, il cuore pulsante dell’Unione Buddhista Italiana.

E da qui occorre partire, se vogliamo comprendere la prospettiva storica del nostro cammino.

Questi luoghi di culto – come li definisce l’Intesa – non sono stati meri importatori di un messaggio proveniente da regioni lontane, bensì traduttori culturali di principi antichi messi al servizio delle domande del mondo contemporaneo.

In questi spazi di ascolto, di studio e di pratica, giungono le richieste di chi ha smarrito una dimensione di senso, di chi avverte un bisogno del sacro, di chi porta fragilità e sofferenza.

E in quei luoghi questi bisogni incontrano un messaggio profondo: che tutti gli esseri possono fiorire, che la sofferenza può essere conosciuta, trasformata, addirittura eliminata alla radice e che ogni scelta ha conseguenze.

Quando un Centro buddhista offre occasioni di pratica, di studio, di confronto, sta tessendo automaticamente un legame con il territorio. Sta dicendo: “mi prendo cura di questa comunità”.

È una visione che richiama alla responsabilità, non solo individuale ma collettiva: l’idea che, in una società complessa e interconnessa, non possiamo separarci dal destino degli altri.

Su ispirazione di persone visionarie e determinate – voglio ricordare il professor Vincenzo Piga – l’Unione Buddhista Italiana ha avuto il grande merito di rappresentare quei luoghi, quelle persone, quelle istanze, dando vita a qualcosa di unico nella storia del buddhismo.

Far sedere allo stesso tavolo diverse tradizioni e lignaggi buddhisti non tanto per un confronto dottrinale, estemporaneo quanto per affrontare insieme questioni operative, organizzative giuridiche – dal testo dell’Intesa all’utilizzo delle risorse.

Questa opera di conoscenza condivisione rappresenta un unicum nella storia del buddhismo e, credo, sarà riconosciuta in futuro come un tassello importante nella costruzione di un buddhismo occidentale, o meglio, di un buddhismo vissuto dagli occidentali.

Grazie al lavoro di diversi Presidenti, di molti Consigli Direttivi e di decine di Assemblee, si è sempre giunti a sintesi capaci di mantenere un equilibrio sottile: quello tra la preservazione di un’integrità religiosa e filosofica e l’incontro con una società che, negli ultimi quarant’anni – e in particolare negli ultimi venti – ha attraversato trasformazioni profonde, quasi antropologiche. Si pensi soltanto agli effetti della rivoluzione digitale.

In questi decenni l’Unione Buddhista Italiana si è fatta carico di una responsabilità importante: ascoltare il territorio per tradurre quel sentire nel dialogo con le istituzioni.

E in questa relazione ha vissuto la stagione dei “no” e dei rinvii, ma anche quella delle speranze: basti pensare alla firma della prima Intesa con il Governo, nel 2000, grazie al Presidente D’Alema, qui presente.

Un’attesa durata quindici anni, e altri dodici per arrivare alla legge. Fu il tempo della grande pazienza – uno dei tratti distintivi di questa tradizione.

Dal 2012 in poi si è aperta una nuova epoca: una UBI che si struttura internamente, che rafforza il dialogo non solo con le istituzioni ma anche con la società civile e il mondo accademico; che porta un pensiero profondo e sistemico nei campi dell’ecologia, dell’educazione, della cura; che interviene laddove vi sono fragilità, dolore, memorie dimenticate.

Una UBI che invoca la pace, ricordando però che i conflitti sorgono innanzitutto dentro di noi; che siede ai tavoli del dialogo interreligioso e costruisce alleanze con altre confessioni per portare conforto, spirituale e materiale, a popoli e comunità in difficoltà.

Una UBI che accoglie come dono prezioso la presenza, al proprio interno, di Centri e comunità provenienti dalle regioni asiatiche dove il buddhismo è sorto e fiorito, favorendo un’opera di integrazione di quelle realtà con la società italiana.

Ecco in questa volontà di alleviare il disagio attraverso il buon cuore e la saggezza risiede la forza propulsiva che ci permette di guardare al futuro, orientati da una bussola chiara: il richiamo alla tradizione che sappiamo non essere mai fede cieca, ma verifica personale; non è chiusura dogmatica, ma nemmeno un generico spiritualismo privo di radici.

Richiamo alla tradizione e allo stesso tempo, la necessità di restare attenti, vigili e flessibili, per cogliere le nuove forme di disagio che emergono in una società in rapida trasformazione, offrendo antidoti, buone pratiche e anche (forse) nuovi linguaggi.

In conclusione, celebriamo oggi quarant’anni dell’Unione Buddhista Italiana per dire con chiarezza: ci siamo.
Non come una minoranza chiusa, ma come una presenza aperta e animata dal desiderio di contribuire al bene comune.

Ci siamo e ci saremo nello spirito del Dharma, nella consapevolezza che esistiamo solo in relazione, che dipendiamo gli uni dagli altri, e che la compassione è la forma più alta e raffinata dell’intelligenza umana.

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