1943 il racconto di Chiara Cesetti 3° Classificata Premio Città di Viterbo – Tuscia Libris

di Chiara Cesetti*

Giulia è appena uscita. Ha chiuso la porta con il vigore dei suoi quindici anni lasciandosi dietro il profumo inconfondibile della giovinezza. E’sabato pomeriggio ed ogni volta che mi saluta gioiosa penso per quanto ancora mi vorrà dedicare un’ora dei suoi sabati. Fino a quando un amore riempirà ogni suo attimo, fino a quando la vita la porterà lontano. La ascolto chiacchierare allegramente, inseguire i suoi sogni, ridere di un compagno, di uno scherzo consumato insieme. Se ne va sfiorando le mie rughe con le labbra fresche, ignara della speranza che mi ha trasmesso.
Solo poco prima la foto uscita per caso dalla scatola di latta aveva cancellato in un attimo il resto della mia vita.
Di anni allora ne avevo sedici.
La guerra da troppo tempo ci negava la gioventù in un alternarsi di giorni vissuti tra paure e privazioni. La casa al paese era scomparsa insieme ad Elena, la mia amica più cara quando una bomba cadde nell’istante in cui era venuta a chiamarmi. Non c’ero, ero dalla nonna e dalla finestra l’ho vista cadere la bomba, ne ho sentito il sibilo, il boato spaventoso , l’aereo che si allontanava e quella nuvola di polvere che si spandeva a nascondere tutto, gli attimi di silenzio incredulo, le grida disperate, la nuvola che lentamente saliva in alto lasciando a terra l’orrore e dentro di me, per sempre, Elena che dalla strada guarda la mia finestra e mi chiama.
Da allora vivevamo in campagna, poco lontano dal paese in un casolare isolato, con tante stanze che nelle estati prima della guerra si riempivano di donne e uomini venuti da fuori per i lavori. Di sotto le stalle, di sopra una soffitta. Ogni stanza una famiglia e la cucina in comune. Niente bagno, niente acqua corrente. Il pozzo al centro del cortile serviva tutti.
Era l’inverno del 1943 e dopo lo sbarco in Sicilia gli alleati risalivano lentamente la penisola. Le poche notizie le portava il medico di famiglia che ogni tanto veniva a farci visita. Scendeva veloce dal calessino e prima di salire in casa si fermava a parlare con gli uomini adulti che lo ascoltavano in silenzio.
Quel giorno il parlottio fu più lungo del solito. Quando mio padre venne di sopra l’espressione del suo viso rivelava una tensione particolare. Si avvicinò alle donne e bisbigliò:
-C’è un ragazzo, un giovane pilota americano. Il dottore dice che il suo aereo è stato abbattuto poco lontano da qui, che i partigiani sono riusciti ad estrarlo vivo ma che è ferito a una gamba. I tedeschi lo stanno cercando. Ha bisogno di cure e soprattutto di essere nascosto -.
Si girò verso di me e mi guardò. Ero abbastanza grande per capire ma non abbastanza per decidere e la sua più che una richiesta di approvazione era una richiesta di scuse per il pericolo a cui mi esponeva.
– Sì, ma dove lo nascondiamo?- fu la risposta. Nessuna delle donne aveva obiettato.
– Nella stalla ci sono i pali, quelli lunghi della linea elettrica. Formeremo una catasta vuota all’interno e lo nasconderemo lì sotto-.
Il ragazzo arrivò con il dottore il giorno seguente, nascosto sotto un mucchio di stracci. Di italiano conosceva una sola parola che ripeteva in continuazione: grazie.
La notte gli uomini avevano appoggiato al muro i pali lasciando all’interno una cavità dove le donne avevano preparato un giaciglio con vecchie coperte.
Ancora oggi l’immagine di Roby mi torna chiara in mente: un ragazzo impaurito e sofferente con pochi anni più di me, piccoli occhi azzurro cielo che tanto avevano visto, precipitato dal caso in un paese lontano da tutto e da tutti e quell’unica parola che ripeteva in continuazione: grazie, grazie.
Scese dal calesse sorretto da mio padre e dal dottore, stordito dal dolore e dalla febbre.
Per diversi giorni non lo vidi più. Ai più giovani era vietato anche parlarne:
-Nessuno deve sapere che è qui, avete capito bene? Se i tedeschi lo scoprono ci uccidono tutti, è chiaro? Non lo deve sapere nessuno, neanche se arriva qualcuno dal paese. Nessuno-
Per me era chiaro ma questo non faceva che accrescere la mia angoscia. La notte sentivo dei gemiti soffocati, vedevo mia madre alzarsi e scendere di sotto. Mi assaliva improvviso il terrore che qualcuno potesse arrivare, trovarla lì, ucciderla e portarci via tutti. Riuscivo a calmarmi solo quando risaliva silenziosa, dopo che i lamenti avevano lasciato il posto ai rumori dell’alba. Non c’erano grandi medicine ma per uscire dai suoi incubi forse a Roby bastavano una mano calda che gli accarezzasse i capelli e le parole sussurrate di una madre.
Il dottore capitava spesso e dopo aver medicato la ferita del ragazzo dava istruzioni alle donne su come accudirlo al meglio.
Una mattina appena sveglia aprii la finestra e lo vidi. Era seduto sui gradini, la gamba ferita distesa, appoggiata a un bastone. Mi vide e sorridendo mi salutò con un cenno della mano. Era pallido e magrissimo ma nel suo viso riappariva la vita.
-Roby è guarito?- domandai.
-Sta meglio, guarirà- fu la risposta.
Dopo quel giorno lo vidi sempre più spesso, seduto con gli occhi chiusi al primo accenno di primavera, immerso in chissà quali pensieri difficili da comunicare in una lingua sconosciuta. Migliorava giorno dopo giorno e quando ormai sentivo dai discorsi che era necessario trovare un modo per farlo rimpatriare, durante una delle sue visite il dottore disse:
-C’è un ragazzo ammalato di polmonite. Si è unito da poco ai partigiani ma ha bisogno di essere curato. Lo posso nascondere solo qui-.
Parlava guardando mia madre negli occhi. Era la più anziana delle donne, quella a cui tutte facevano riferimento, a cui spettava di prendere la decisione finale che avrebbe coinvolto le altre, ma anche quella su cui maggiormente sarebbe gravato il compito.
-Un altro ragazzo?- mormorò lei. Il tono era dubbioso. Adesso che Roby era in grado di farcela da solo, adesso che avrebbe potuto tornare dai suoi liberandoci del pericolo che rappresentava per tutti noi? Mio padre rimaneva muto, in un silenzio senza risposte.
-Ha sofferto e soffre molto- disse il dottore- Si chiama Josè, è argentino. E’ stato prigioniero dei tedeschi in un campo di concentramento-.
-Come è arrivato fino qui?- era ancora lei a parlare per tutti e fu chiaro che la domanda la avvicinava sempre più a quel ragazzo che adesso aveva un nome.
-E’ riuscito a rubare una bicicletta e a scappare. Non so come è arrivato da noi ma viste le sue condizioni i compagni mi hanno chiesto di aiutarlo-
-Va bene- fu la risposta.
Erano tempi in cui non si sprecava nulla, neanche le parole.
Il giorno seguente arrivò. Un bel ragazzo con i capelli scuri e lisci. Gli occhi neri, grandi e inquieti, scrutavano attorno con un bagliore che niente era riuscito a spegnere. Le guance scarne, arrossate dalla febbre, rivelavano un viso deciso che dimostrava più della sua età. Sorrise alle donne che lo aspettavano e quel primo sorriso rivelò le terribili sofferenze patite: molti denti gli erano stati strappati durante gli interrogatori e le torture subite.
Per anni i miei sogni sono stati popolati da incubi in cui mi venivano strappati i denti. Mi risvegliavo all’improvviso con il cuore impazzito, madida di sudore, ma appena sveglia mi tornava alla mente il viso felice di José quando mi salutò per l’ultima volta e quella felicità che aveva vinto ogni strazio mi tranquillizzava.
Era molto malato. Respirava a fatica e ad ogni respiro il suo petto ossuto si sollevava a saziarsi d’aria. Avevano sistemato per lui un vecchio materasso in soffitta dove solo le donne potevano salire. Non sentivo mai nessuna voce, nessun lamento e ogni volta che mia madre scendeva la scala di legno che portava di sopra chiedevo:
–Come sta Josè? –
-Sta male-
-Può morire?- Ero giovane e l’idea della morte, anche in tempi in cui spesso ci sfiorava, mi terrorizzava. Quella morte soprattutto, quella della malattia che consuma la vita giorno dopo giorno.
– Non lo so. Non ci pensare- rispondeva. Lo curava con i medicamenti di allora: impacchi di semi di lino e mattoni bollenti avvolti con un panno di lana poggiati sul petto. Fino a che anche per Josè fu la gioventù ad avere la meglio e guarì.
Un pomeriggio, era quasi il tramonto di una giornata chiara di tramontana, una nuvola di polvere e il rumore di un motore ci misero in allarme.
-E’ una camionetta- disse qualcuno
-Sono tedeschi, sono tedeschi!-
-Di sotto, tutti di sotto, svelti!-
Mio padre si precipitò in soffitta dove Josè e Roby si rifugiavano durante il giorno
– Giù, giù, sotto la catasta, in fretta, in fretta- lo sentivo gridare.
Erano soldati tedeschi che perlustravano le campagne in cerca di fuoriusciti. Un bambino di pochi mesi, figlio di una giovane coppia che da poco si era unita a noi, iniziò a piangere spaventato dal trambusto improvviso.
– Roby e Josè dentro la catasta di pali, le donne tutte sedute sopra-. Ordini concitati che tutti eseguivamo senza parlare.
La camionetta si fermò davanti all’ingresso della stalla. Gli uomini uscirono incontro ai soldati. Il bambino continuava a piangere e la madre non riusciva a calmare la sua disperazione. Due soldati entrarono con le armi spianate e uno dei due, puntando il fucile in direzione del bambino
-Fallo tacere – ordinò.
La giovane donna, cerea in viso, non sapeva come calmarlo e continuava a cullarlo nervosamente. Noi, atterrite, immobili, sedute sulla catasta da cui dipendeva la vita di tutti.
-Fallo tacere!- questa volta il soldato aveva urlato. Sentii che l’ ordine nascondeva un’irritazione difficile da dominare e la tensione mi tolse il respiro. In quell’istante entrarono gli altri due soldati. In tedesco ordinarono ai loro compagni di perquisire la casa. Lì, nella stalla, non c’era altro da vedere se non un gruppetto di poveracci seduti uno vicino all’altro, i traditori di un’alleanza che era giusto pagassero con il terrore la loro slealtà.
Salirono di sopra, perlustrarono ogni angolo fino alla soffitta e finalmente se ne andarono senza aver trovato nulla.
Per il resto della vita non ho dimenticato il pallore terreo del viso degli adulti e le braccia di mio padre che mi strinsero fino a soffocarmi dopo che i soldati se ne furono andati.
L’ inverno stava lasciando il posto alla primavera e durante quelle notti meno lunghe sentivo passi silenziosi scendere le scale della soffitta e il cigolio circospetto della porta che comunicava l’uscita di qualcuno. Era José che di notte andava a sabotare le linee telefoniche dei tedeschi. Ce lo rivelò il dottore solo dopo la fine della tempesta.
Il fronte si avvicinava sempre più. Da giorni gli alleati bombardavano i piccoli aeroporti delle basi nemiche poco distanti dal paese. I loro grandi aerei carichi di bombe sorvolavano il cielo e al rombo funesto dei motori vedevo mia madre farsi il segno della croce e mormorare:- A chi toccherà oggi, Signore aiutali-. Le notizie della guerra giorno dopo giorno ci tenevano sospesi tra paura e speranza.
-Sono vicini…hanno bombardato Civitavecchia…un disastro…-
Il 9 giugno del ‘44 tutto annunciava la liberazione imminente. Da lontano un tuono ininterrotto come di tempesta riempiva l’aria mentre piccoli aerei perlustravano a bassa quota le campagne intorno.
Nella ritirata i tedeschi avevano fatto saltare il ponte sul fiume Marta e gli alleati lo attraversarono su un ponte di barche. Il paese attendeva, schiacciato da strano silenzio in cui speranza e timore si fondevano. Sfuggita al controllo di mia madre ero in piazza insieme a tanti altri. Ecco apparire la prima camionetta, mimetizzata sotto rami di quercia. Vidi Roby correrle incontro con il suo passo ancora incerto. Parlò un attimo con i soldati, salì con loro e se ne andò. C’era Josè vicino a me, gli occhi febbrili per l’eccitazione, mi afferrò per un braccio, si tolse dalla tasca un coltellino, mi tagliò una ciocca di capelli e correndo andò incontro al corteo. Un fiume ininterrotto di uomini e mezzi percorse le strade del paese e mentre per la prima volta vedevo sfilare uomini di colore con i capelli crespi legati sulla testa e gli anelli alle orecchie, una morsa dolorosa mi strinse la spalla. Mio padre mi cercava tra la gente e mentre mi trascinava via, senza guardarlo avvertii la sua rabbia e la sua paura.
La tempesta era finalmente passata. In poco tempo le promesse della mia giovinezza l’avrebbero nascosta sotto uno leggero strato di cenere per vederla tornare, impietosa e inesorabile, ad ogni piccolo soffio di vento.
Oggi è bastata quella minuscola foto dai bordi ondulati a spazzarlo via. Sullo sfondo dei grattacieli di New York c’è Roby ,sorridente, sotto braccio a un mio zio che viveva là.
Josè, l’irriducibile Josè che nessun dolore aveva piegato, perse la sua lotta quando ormai ogni battaglia era terminata. La nave che lo conduceva a casa non è mai arrivata, inghiottita dalle acque indifferenti dell’oceano.
Per lui la guerra non è mai finita.

L’Autrice:

Insegnante di Lettere in pensione,  nata e vive a Tuscania. La scrittura l’ha accompagnata in ogni momento e da quando gli impegni lavorativi e familiari le hanno concesso maggiore tempo libero è diventata una compagna di vita.

1943 è incluso nella Antologia del Premio TUSCIA LIBRIS edita da Della Rocca Editore acquistabile sul sul sitowww.tusciaapezzetti.it/prodotto/tuscia-libris-antologia/

 

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