Viterbo nel Medioevo: chi era oltre i 45 anni veniva ritenuto vecchio e fortunato

di Luciano Costantini

Nel Medioevo chi andava oltre i 45 anni veniva considerato vecchio e, soprattutto, fortunato. Difficile immaginare un’esistenza da over 50. Era così ovunque. Pestilenze, carestie, guerre decimavano le popolazioni. E dove non arrivavano i flagelli del tempo, colpiva l’ineluttabile selezione naturale che mieteva vittime già nelle culle. Matrimoni e funerali erano snodi decisivi e capolinea di esistenze spesso grame. Due momenti che, proprio per questo, erano segnati da rituali ormai atavici e fondamentali, legati al culto religioso e necessariamente regolati da una normativa pubblica codificata negli Statuti. Quelli adottati dal Comune di Viterbo nel 1251 ne sono un esempio eloquente. Il matrimonio oggi è un momento per consolidare un legame, ma pure per ritrovare parenti, amici, per fare nuove conoscenze. Per offrire doni ai coniugi prossimi venturi. Niente o assai poco di tutto questo era previsto e consentito negli sponsali di nove secoli fa. Allo sposo era vietato offrire alcunché ai futuri suoceri, ai cognati e perfino alla promessa sposa. Non si poteva andare più in là di uno scambio reciproco di giuramenti tra le famiglie. I confetti arriveranno molto più tardi. Cortei nuziali a numero chiuso: non oltre le 23 persone al seguito quando lo sposo era un militare, un giudice o un figlio di questi; non più di 12 quando a salire all’altare era un semplice fante o comunque un uomo di umili origini. Questioni di ceto e di censo. Visite ai suoceri dopo le nozze? Certamente, ma nel rispetto di regole precise: lui poteva recarsi dai genitori di lei soltanto in alcuni giorni prefissati e comunque sempre insieme alla moglie. Al più, in compagnia di due amici o uno solo se si restava a pranzo o a cena. Né il padre, né la madre, né alcun parente poteva recarsi in visita a casa della sposa per portare regali. Niente di niente, figurarsi qualche contributo in denaro sonante. Violare le norme significava incorrere in sanzioni pecuniarie, variabili a seconda del censo del “fuorilegge”.
In occasione dei funerali, per le famiglie dei defunti le norme erano anche più stringenti. Altro che …ingresso libero nella casa del dolore. Nessuna donna poteva entrare se non fosse madre, figlia, o sorella fino al quarto grado e comunque nessuna poteva essere accompagnata da più di due donne. Era ammessa una sola eccezione, quella della presenza di prefiche che venivano magari da paesi vicini a spargere lacrime e ricordare le lodi del caro estinto. Una tradizione che fonda radici profonde nella notte dei tempi (se ne parla già nell’antico Egitto) quando professioniste del pianto – le prefiche, appunto – venivano ingaggiate e pagate per versare lacrime e strapparsi i capelli, inginocchiate dinanzi ai letti di morte. Insomma, lacrime a pagamento. I parenti, invece, erano tenuti a mantenere un contegno il più dignitoso possibile. Terminate le esequie in chiesa, seguiva il trasporto al cimitero. Niente processioni e vedove in gramaglie. Solo coloro che erano impiegati a trasportare il feretro potevano, anzi dovevano, accompagnare la salma all’ultima dimora. Il momento più acuto del lutto, annessi e connessi, si esauriva soltanto nel settimo giorno dalla morte, con donazioni varie da parte di parenti e amici del dipartito: però, attenzione, niente pane, fave, legumi, dolci, ma solo elemosine da ripartire tra comunità di poveri, ospedali, enti religiosi e chiese. Come dire, niente fiori, ma opere di bene. E la vita continua.

(Foto: cover catalogo Masterplan per il centro storico di Viterbo 2016)

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