Viterbo com’era vista con un drone immaginario

di Luciano Costantini

La quarantena imposta dal Coronavirus può riservare anche momenti piacevoli, come quello di scoprire luoghi e persone che la storia ha parcheggiato in un angolo, ma che non ha cancellato. Proviamo allora a ritagliarci qualche minuto per ricostruire la topografia Viterbo partendo dall’alba della sua esistenza, in base alle rilevazioni di storici autorevoli. Insomma, andiamo a visitare Viterbo com’era. E’ un immaginario volo a bordo di un altrettanto immaginario drone che per vedere ha bisogno degli occhi della fantasia. Volteggia su una città che ancora tale non è. Decolliamo dall’aeroporto Ottavo Secolo dopo Cristo per atterrare dolcemente sullo scalo Secolo Tredicesimo. In partenza spuntano spelonche o, al massimo, modeste casupole, disseminate tra il degradare dei Cimini e le prime pianure. Tracce evidenti dell’antica presenza prima etrusca e poi romana. Il nucleo più importante è lo sperone che si estende, circa duecento metri per cento, sul colle di San Lorenzo, dove sorgeva un primitivo pagus etrusco e dove si ergeranno, nei secoli successivi, il Duomo e il Palazzo Papale. E’ difeso dalla valle di Faul da una parte e dal lungo dirupo che si inerpica fino a raggiungere l’attuale Porta del Carmine dall’altra. San Lorenzo come la prua naturale di una nave. La valle di Faul è solcata dal fiume Urcionio; lo sperone di San Lorenzo è collegato all’entroterra unicamente da un robusto ponte costruito in blocchi di peperino non cementati. Un sentiero più che una strada costeggia la valle che conduce fino a Porta Sonsa, quasi all’altezza di piazza del Teatro, dove, fino poco prima della seconda guerra mondiale, sorgeva il quartiere della cosiddetta Svolta. A destra, direzione Nord/Est, e per tutto il percorso, tanti “vici” che altro non sono che manciate di casupole abitate, in autentica simbiosi, da poveri contadini e modesti armenti. Uno di questi è il Vico o Campo Squarano, oggi Pianoscarano, ad Est del colle di San Lorenzo e, più avanti, il Vico di Sonsa. Verso Sud il Vico di San Valentino in Silice dove sono stati sepolti i martiri Valentino e Ilario e dove viene innalzata una chiesa a loro dedicata. Non dista più di tanto dalla moderna Cassia, lungo la strada Bagni. “Fu sobborgo con residenza di pubblici uffiziali, ministri e terreni messi a ortaglie”. Nel 1137 però viene praticamente raso al suolo “perché fattosi nido di sicari e ladroni”. Altri “vici” a Nord/Est: Antoniano e Foffiano, a neppure un paio di chilometri dal colle di San Lorenzo. Vico Foffiano, in particolare, si trova ai piedi della contrada del Cuculo, lungo la vecchia strada tra la Quercia e Bagnaia. Più precisamente, alla confluenza di un ponte sotto il quale scorre il Fosso Luparo o Arcione (oggi Urcionio). Da qui il nome della valle dell’Arcionello che si insinua profondamente nella valle di Faul, passando sotto via Marconi. Non lontana è la Massa Palanzana che allunga le proprie braccia fino alle chiese di San Pietro e San Valentino, a ridosso dalla Cassia. Più in basso, tra le casupole, altre chiese più o meno importanti, ma che svolgono al meglio la funzione di luoghi di culto della cristianità. Un volo di diverse decine di anni ed ecco la pieve di Sant’Andrea, fulcro e cuore pulsante di Vico Squarano. Con il trascorrere del tempo acquisirà le chiesette di Sant’Abbondio e di Santa Lucia in Solocoto, delle quali purtroppo non esiste più alcuna traccia. Nel prato Cavalluccalo (l’odierna piazza del Comune) sorge la chiesa di San Michele Arcangelo, poi Sant’Angelo in Spatha. Proseguendo ecco il tempietto di San Marco, tra la scomparsa porta Sonsa e l’attuale teatro dell’Unione. Più in alto salendo a ritroso lungo l’odierna via Mazzini, San Giovanni in Zoccoli, la cui costruzione si perde nella notte dei tempi. Poi i templi di San Pellegrino, San Simone e Giuda, Santa Maria della Palomba e Santa Maria del Poggio. Inutile ripeterlo, si vola sempre lungo la direttrice San Lorenzo/Porta Sonsa. L’ipotetico drone della immaginazione scopre che il fronte destro, lungo il quale scende l’Urcionio, è praticamente disabitato. Soltanto la basilica di San Francesco, risalente però al tredicesimo secolo e la chiesa di San Faustino dello stesso periodo, lasciano testimonianze evidenti per quanto preziose. San Faustino diventa addirittura la nuova patria per una parte della comunità di Ferento, deportata dai viterbesi dopo la distruzione della città perla dell’Impero Romano. Il resto della popolazione preferirà trovare rifugio a qualche chilometro di distanza nelle Grotte di Santo Stefano. E’ la pulizia etnica di altri tempi. Soltanto con la fine del Mille i vari vici provano a stare insieme per far nascere una città e soltanto alla fine dell’undicesimo secolo Viterbo comincia a dotarsi di un robusto sistema di difesa con il primo tratto dei quasi quattromila metri di cinta muraria. Si parte dal fronte Sud/Est, quello che va da Porta Fiorita a Porta Sonsa, e non è una scelta casuale, ma una necessità perché quella è la parte più esposta della Viterbo che sta diventando grande e splendida città.

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