Non c’è abbazia, non c’è convento che non possano vantare una erboristeria propria dove preparare rosoli dolcissimi, ma pure amarissime tisane alle erbe. Viterbo nel secolo scorso aveva la sua erboristeria all’interno del monastero del Paradiso. A dirigerla è padre Antonio, a renderla famosa i suoi preparati basati su 120 erbe. Vanta una marea di clienti, anche dall’estero. Un giornalista del Messaggero va a visitarlo sperando magari di carpirgli chissà quali segreti. L’unica cosa che riesce ad ottenere è un bicchierino di liquore artigianale dolcissimo, gentilmente offerto da padre Antonio. I segreti devono restare nell’alambicco. Il report, datato 16 agosto 1951, è altrettanto gustoso. (L. C.)
Nell’epoca della penicillina, del Pas e della streptomicina, c’è ancora chi cura, con notevoli successi, buona parte dei malanni degli uomini servendosi unicamente di centoventi specie di erbe nostrane od esotiche, dall’ortica alla mirra, dal prezzemolo all’aloe: è un vecchio cappuccino di 70 anni, padre Antonio D’Addario da Pescara, il quale ha il suo laboratorio in un suggestivo chiostro duecentesco, quello di Santa Maria del Paradiso a Viterbo. Per parlare con lui ho fatto anche io la fila tra numerose persone di tutte le età che attendevano il loro turno per acquistare una delle quaranta medicine di “don Antonio”. Alcune erano sue clienti abituali, altre venivano a lui fiduciose dopo aver provato invano dozzine di medicamenti sintetici e di costose specialità: le lettere dei malati da lui guariti – e sono migliaia d migliaia – per lo più cominciano con una frase del genere: “Ho usato invano tante medicine prima di sapere della sua tisana che mi ha ridato la salute…”. Malgrado tanto entusiasmo e tante documentate referenze, sono piuttosto restio ad affidare i miei reni alquanto in disordine alla tisana “anticalcolosa e antiuricemica” di padre D’Addario, il mio esaurimento nervoso al suo “fitorobur” (5 kg. di aumento di peso in un mese garantiti) a base di ossa di bue calcinate, prezzemolo, fieno greco e nasturzio e perfino la mia disappetenza stagionale alla sua “china ferruginosa e vitaminosa”. Di fronte al suo accorato appello “non vuol proprio gradire nulla?”, ripiego sulle classiche specialità claustrali e chiedo una “chartreuse” o un “benedettino”, ma don Antonio non segue la tradizione e mi porta il “liquorino della serva”. E’ fatto coi rifiuti della cucina – mi dice – come bucce di pesche, di albicocche, di arance e di fichi, pezzi di carota ecc. : il tutto viene macerato nello zucchero e poi “lavato” con vino comune. Chiudo gli occhi e bevo in un solo sorso, ma ho torto perché il “liquorino” è veramente buono: amabilmente dolce e deliziosamente profumato. Quasi per punire il mio scetticismo, padre D’Addario con la sorridente complicità del mio fotografo – che è un suo affezionato ammiratore e cura con le sue specialità tutti i malanni della sua famiglia – mi propina poi il “balsamo francescano”, di fronte al quale il fernet appare dolce come il miele: contiene incenso, mirra, aloe, genziana, assenzio, muschio, ambra ed un’altra dozzina di erbe ed è un po’ il “jolly” delle medicine, perché cura tbc, ulcere, coliche, piaghe, infiammazioni e mal di denti, arresta la caduta dei capelli, è aperitivo e digestivo e sostituisce l’acqua ossigenata e la tintura di iodio. Vuoi forse sorridere, ma dozzine e dozzine di lettere d Chicago, Napoli, Parigi, Madrid, New York, ecc. ecc. ringraziano calorosamente padre D’Addario ed il suo prodigioso “balsamo”. Don Antonio non è un misoneista e segue attentamente le riviste scientifiche specializzate; parla con competenza di vitamine e di “cibi integrali” e non ha mai parole di disprezzo per la scienza moderna. Soltanto egli dice – ed in ciò è d’accordo col noto scienziato ungherese Janos Ploesch, autore de “La storia di un medico” – che a volte le medicine non sono efficaci perché durante la loro preparazione vanno perdute molte delle proprietà delle sostanze naturali che le compongono. “Invece – aggiunge con aria soddisfatta – le mie tisane conservano il 90% delle doti delle erbe”. Anche il laboratorio di don Antonio – nel quale, insieme a lui, lavorano il suo superiore padre Graziano, un altro frate e due laici – è decisamente l’opposto di quel che ci si aspetta: non ragnatele, ma illuminazione al neon, non antri fumosi, ma locali pieni d’aria e d luce, non misteriosi alambicchi, ma macchine moderne una delle quali prepara seimila compresse all’ora. Padre d’Addario ha pensato un po’ a tutte le necessità della gente comune e specialmente degli agricoltori: così, accanto alle tisane ed alle polveri lassative o antimalariche, ci sono quelle per favorire l’allattamento, per togliere al vino i sapori cattivi e per curare le malattie dei polli. Nel suo repertorio c’è anche un rimedio di sapore quasi esistenzialista – la tisana contro gli stati di angoscia – ed alcune specialità poeticamente composte soltanto da petali di fiori: violette per le bolle delle ragazze, garofani per le infiammazioni agli occhi. Nel convento del Paradiso è stato introdotto un nuovo sistema per cuocere gli ortaggi: nella pentola quasi vengono messi sopra un piatto metallico tutto bucherellato sotto il quale bolle l’acqua. Il vapore cuoce le erbe senza distruggere i loro sali minerali, come fa la cottura normale, ed esse acquistano un sapore migliore. Dieci prodotti dell’officina di padre D’Addario sono stati già approvati dalla Direzione generale della Sanità Pubblica del Ministero degli Interni, ma in generale i medici sono piuttosto diffidenti nei confronti di questi rimedi ed i più entusiasti articoli arrivano appena a un sufficiente “le erbe non fanno male”. Don D’Addario però non se la prende: il suo vigore e la sua prestanza giovanile sono la pubblicità migliore per i suoi rimedi. “Herbis non verbis” (con erbe non con le chiacchiere) il suo motto e con esso mi congeda per continuare la lettura del breviario tra la lussureggiante vegetazione di menta e di assenzio che conforta col suo verde, coi suoi profumi inebrianti, la lenta agonia delle vecchie colonnine gotiche in rovina.
(Documentazione tratta dalla ricerca d’archivio sul periodo storico del giornalista,direttore Luciano Costantini).


























