Santa Maria del Paradiso e quel passaggio al femminile poco conosciuto

Di Luciano Costantini

Da più di otto secoli guarda Viterbo da una collinetta sopra la valle dell’Arcionello. Una esistenza lunghissima, la sua, e assai tribolata, al di là e a dispetto del nome che si porta dietro: Santa Maria del Paradiso. Esistenza tribolata per le vicissitudini della chiesa e del monastero, ma pure per le sorti di coloro che ne furono ospiti  – suore e monaci – in tempi diversi. Con certezza si sa che la chiesa viene eretta nel 1225 dal cardinale Capocci, accanto alle rovine di un antico cenobio dedicato a San Michele, originariamente di proprietà degli eremiti di Farfa e poi passato in possesso di tale Sinibaldo, un canonico di Santa Maria Nuova. La costruzione voluta dall’illustre porporato ha un fine soprattutto pratico, quello di offrire una dimora stabile ai monaci Cistercensi di San Martino al Cimino che oggettivamente incontrano difficoltà a muoversi, specialmente nel periodo invernale, e poi c’è l’esigenza di evitare che i pacifici religiosi, impegnati nell’opera di proselitismo, restino coinvolti nelle turbolenze popolari che serpeggiano da sempre in città. Ecco allora che Santa Maria del Paradiso può costituire un rifugio sicuro per i confratelli. Non funziona mica e non si sa perché. E’ vero invece che nell’arco di una ventina di anni il sito finisce progressivamente in stato di abbandono. Ne approfitta – si fa per dire – il cardinale inglese De Toleto che chiede ed ottiene di poter utilizzare il complesso monastico per i suoi Cistercensi. Con l’unica variante che stavolta ad abitarlo non saranno più gli eremiti di San Martino, ma le monache dello stesso Ordine, al quale del resto egli stesso appartiene. Il reclutamento risulta abbastanza facile. L’organico iniziale della comunità religiosa è composto da una badessa, una priora, quattro suore “cantatrici” e tredici monache, provenienti da Viterbo, Roma, Orvieto, Perugia, Assisi e Siena. Alcuni anni dopo, precisamente nel 1270, il numero delle religiose risulta più che raddoppiato con l’arrivo di altre ventitre suore, tutte viterbesi, tranne una di Bagnoregio. Un Paradiso? Sì, forse, ma solo per poco più di cento anni. Sarà per la lontananza dalla città che permette di occultare il contagio di pulsioni di vario tipo, sarà per il crescente e quindi preoccupante numero di incursioni di malintenzionati, fatto è che i vertici del clero viterbese sentono come sempre più insostenibile il peso della vigilanza su Santa Maria del Paradiso e decidono, agli inizi del ‘400, di trasferire suore e bagagli dentro le mura di Viterbo. Più esattamente nel palazzo di San Fortunato, in prossimità dell’antica Porta Velia alle Fortezze, non lontano dall’attuale Porta Romana. Una deportazione coatta che tuttavia non dà i risultati sperati perché le monache “neppure là rinsavirono”, scrive lo storico viterbese, Cesare Pinzi. Un epilogo comunque negativo e che al clero non lascia speranze di….redenzione, se è vero che il cardinale Vitelleschi mette i sigilli al monastero, alla chiesa e al chiostro di Santa Maria del Paradiso. Passano appena quattro anni e Papa Eugenio IV° cede, su richiesta di fra Giacomo da Rieti, l’intero sito ai frati Minori Osservanti di San Francesco. La storia recente non è esattamente celestiale, anzi continua ad essere movimentata: tra la fine dell’800 e i primi anni del secolo scorso il sito viene utilizzato come deposito, come canile, come rimessa per carri funebri, come garage, come caserma. Poi i bombardamenti della seconda guerra mondiale e la riapertura della chiesa nel ’45 con il ritorno…in Paradiso dei frati Minori di San Francesco.

Foto di Ezio Cardinali.

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