Romolo Passini: con il teatro popolare oltre i confini caprolatti

romolo passini

Trentacinque anni di teatro dialettale con la Compagnia Peppino Liuzzi di Caprarola, una simbiosi iniziata nei lontani anni ’70 ricchi di fermento culturale. Parliamo di Romolo Passini, attore di teatro appassionato di musica e libri.

Romolo è entrato nel mondo del teatro nel periodo dell’adolescenza e non l’ha più abbandonato. “Ho iniziato che avrò avuto 16 o 17 anni, con il gruppo di amici di allora. Uno di loro, Fiorenzo Mascagna, oggi quotato scultore, era ed è un bravissimo poeta, lui scriveva i testi e li recitava, io facevo le luci e un po’ di regia. Le prime scenografie le acquistammo con quei pochi soldi che riuscivamo a mettere  insieme facendo piccoli lavoretti o andando alla “busca” delle nocciole e le prove si facevano dentro le cantine. Poi, quando tornai dal militare, cominciai ad essere incuriosito dall’attività, all’epoca molto intensa, di quello che ancora si chiamava Gruppo Teatro Popolare di Caprarola ed entrai a farne parte nella duplice veste di attore e facchino, in verità, più facchino che attore, ma confesso che fu molto divertente La data di nascita della Compagnia si può stabilire nel 1972, però viene dedicata a Peppino Liuzzi solo negli anni ottanta, dopo la sua scomparsa. Peppino era un attore professionista di Caprarola che aveva collaborato alla messa in scena di alcuni spettacoli della Compagnia.”.

Nato a Caprarola dove tutt’ora vive, del suo paese d’origine ha un rapporto di odio e amore. “È un paese strano il nostro, un luogo che, trovandosi tagliato un po’ fuori dalle principali vie di comunicazione, ha conservato dialetto, tradizioni e, oserei dire, valori, più a lungo di altri paesi che, al contrario, hanno subìto una forma di “romanizzazione” loro malgrado, perdendo in maniera irrecuperabile molta di quella  ricchezza legata alla propria cultura. Forse anche per questo, ancora oggi, nell’era di internet e quindi dell’annullamento di tutte le distanze, Caprarola stenta a decollare turisticamente, malgrado sia ricca di beni culturali ed ambientali da fare invidia a molti, è come se ci fosse una, non esplicita, ma tenace forma di orgoglio che rende la maggior parte dei cittadini impermeabili ad una contaminazione esterna, contribuendo a lasciarli, in qualche modo, isolati. Soltanto la musica ed il teatro sono riusciti a stabilire, nel corso degli anni, dei contatti con realtà diverse da quelle locali e, anche per questo, si sono moltiplicate e modificate nel tempo”. 

Ed è proprio sul dialetto e in generale sul teatro popolare che la Compagnia si fonda, per non perdere le tradizioni, la cultura e soprattutto per far sì che una lingua non venga dimenticata. “Più che il dialetto in se stesso, a me interessa il teatro popolare, che è fatto “anche” in dialetto. Indubbiamente, il dialetto mi appassiona, ma, probabilmente, più per la sua dirompente forza espressiva che per un fatto di ricerca linguistica. Poi è ovvio che per ottenere la prima cosa, devi per forza lavorare sulla seconda. Durante i primi anni della mia militanza nella Compagnia, in piena epoca democristiana, ricordo che in paese eravamo attaccati da più fronti, da una parte c’era il parroco che, durante le prediche domenicali, ci accusava di portare in scena testi offensivi alla morale, come ad esempio “Come si gnente fusse”, testo bellissimo di Ottavio Sabatucci, che affrontava la problematica dell’aborto clandestino e dell’ipocrisia che lo circondava, e dall’altra, le molte persone che per strada ci insultavano, accusandoci di ridicolizzare, attraverso l’uso stretto del dialetto, la società caprolatta agli occhi degli altri paesi in cui andavamo a fare gli spettacoli. Ovviamente non ci siamo fatti influenzare né dal prete, né dalla gente e abbiamo continuato a fare il nostro teatro che era sì, dialettale, ma prima ancora “popolare”, perché, troppo facilmente i due termini vengono confusi fra loro. Se una compagnia recita in dialetto, non è detto che faccia teatro popolare, ma di sicuro, contribuisce a far sì che una lingua non venga dimenticata”. 

Tutti gli spettacoli realizzata dalla Compagnia sono appunto in dialetto caprolatto, caratteristica che le ha permesso di farsi conoscere e avere successo anche fuori dalla Tuscia. “Negli anni abbiamo avuto modo di rappresentare i nostri spettacoli anche fuori regione, ad esempio in Toscana, dove abbiamo riscontrato somiglianze con il nostro dialetto, oppure in varie città della Calabria e ancora a Roma, al Teatro Il Labirinto e al Teatro Parioli. Negli anni ottanta abbiamo realizzato tre radiodrammi RAI, quindi registrazioni effettuate sia presso la sede RAI di Roma che quella di Torino. Tutti i nostri spettacoli sono sempre stati in dialetto, da quando è nata la Compagnia ne sono stati portati in scena decine. I ricordi più belli li serbo per le commedie scritte da me negli ultimi quindici anni e fra queste, quella che più ricordo con particolare affetto è “Sodaccio” per vari motivi: primo perché credo di essere riuscito a portare in scena la “mia” idea di teatro popolare, secondo perché è legata fortemente al ricordo di uno di noi, un componente della Compagnia che faceva parte dello spettacolo e che, purtroppo, scomparve precocemente, per ultimo perché mia moglie mi ripete continuamente che è lo spettacolo più bello che abbia realizzato finora”.

Oltre al teatro dialettale, le esperienze recitative di Romolo hanno toccato vari campi, radio, cinema, fiction, teatro, incursioni nel mondo del professionismo che gli hanno dato l’occasione di lavorare con personaggi che, mano a mano, hanno inevitabilmente arricchito la sua formazione teatrale. Come Umberto Marino, regista, sceneggiatore e drammaturgo che gli ha insegnato tantissimo. Naturalmente, quando si è trovato a dirigere la Compagnia, tutte queste esperienze, ci si sono riversate dentro, dando inevitabilmente una svolta al modus operandi che l’aveva caratterizzata nei suoi primi anni di vita. “La Compagnia con il passare degli anni ha cambiato fortemente la sua connotazione iniziale. Prima la struttura drammaturgica ruotava intorno a tre o quattro attori, che essendo i più caratteristici, erano diventati le indiscusse primedonne. Tutti gli altri ruotavano intorno, entravano, uscivano, ne sono passati talmente tanti che è ormai difficile anche enumerarli e a volte, ricordarli. Poi le cose sono cambiate, con il passare degli anni, come è naturale che sia. Dalla Compagnia storica sono via via uscite persone che sentivano l’esigenza di creare una propria realtà teatrale, con finalità completamente diverse da quelle di partenza. A quel punto, con la perdita dei soliti protagonisti, sembrò che la Compagnia fosse arrivata alla propria fine, che non potesse farcela, invece, al contrario, si trasformò in un nuovo inizio, si delineò una realtà in cui scomparve completamente la figura della primadonna, per dare spazio a giovani che fino ad allora avevano soltanto ricoperto piccoli ruoli marginali. Erano molte le persone con la voglia di imparare cose nuove e quindi, da un’intensa attività laboratoriale, sono nati nuovi attori, uniti fortemente fra di loro, con una voglia di crescere e fare gruppo mai vista fino ad allora. Quindi posso dire, senza ombra di dubbio, che il valore fondante che è prevalso e che è diventato la spina dorsale del gruppo non è la passione per la recitazione, ma è l’amicizia”.

Si è appena conclusa con grande successo l’edizione 2016 del Festival Di Voci e Di Suoni, “Ci siamo dedicati, anima e corpo, all’organizzazione del nostro Festival di musica e teatro popolare, giunto alla nona edizione che ha portato a Caprarola ospiti sempre più importanti. Nel frattempo sto finendo di scrivere il mio nuovo testo, cominceremo le prove in autunno per essere pronto l’anno prossimo”. 

  

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