Pasolini e la Tuscia, location ideale di alcuni dei suoi film più belli

Ebbene, ti confiderò, prima di lasciarti,
che io vorrei essere scrittore di musica,
vivere con degli strumenti dentro la torre di
Viterbo che non riesco a comprare,
nel paesaggio più bello del mondo, dove
l’Ariosto sarebbe impazzito di gioia nel vedersi ricreato
con tanta innocenza di querce, colli, acque e botri,
e lì comporre musica,
l’unica azione espressiva
forse alta, e indefinibile come le azioni della
realtà.

Pier Paolo Pasolini, da “Poeta delle ceneri”, 1966 con la naturale luminosità che hanno nella fede contadina.

 

Nel 1964 Pasolini approda a Viterbo, città scoperta in precedenza grazie alla collaborazione con Federico Fellini e si innamora delle Cascate di Fosso Castello, in prossimità di Chia.

E’ qui, in questo luogo puro e incontaminato, che il marxista alla ricerca del sacro gira la scena del battesimo di Cristo nel suo film capolavoro Il Vangelo secondo Matteo “dedicato alla cara, lieta, familiare memoria di Giovanni XXIII”, film premiato dall’Office Catholique International du cinema con il Gran Prix del 1964.

Sarà qui, in questo luogo magico, che Gesù Cristo verrà battezzato da Giovanni Battista, tra la folla dei fedeli, anch’essi battezzati, che hanno la faccia degli abitanti della zona, in una ripresa effettuata dall’alto, di grande impatto emotivo, con una visuale grandangolare che sembra sottolineare la forza, la grandezza del paesaggio e la purezza del luogo. Luogo preferito alla Terrasanta in quanto più autentico, vero e meno retorico.

Il tutto reso ancor più suggestivo dall’uso della musica: lo spiritual.

Tutti i presenti alzano gli occhi, in quanto il padre è un altro e ognuno si riscopre figlio di Dio.

Dietro Giovanni che battezza Gesù, i discepoli sebbene non siano stati ancora presentati.

La musica che accompagna il battesimo di Gesù è tutt’altro che ovvia: Musica funebre massonica di Mozart: K 477 che ritornerà nelle scene più solenni del film: la scelta degli apostoli, la crocifissione e la morte, là dove la vocazione intravvede sul suo cammino la prospettiva della morte.

Nel film, fedelissimo al testo del Vangelo secondo Matteo, la storia del Cristo sottolinea evidenti richiami a quel mondo contadino il cui dialetto era già utilizzato nei primi poemi (Poesie a Casarsa e La meglio gioventù).

Nessun tracciato narrativo condotto in chiave marxista o secondo l’ottica cattolica.

I miracoli saranno rappresentati con la naturale luminosità che hanno nella fede contadina.

La figura di Cristo emerge nel film come una grande innovazione pasoliniana, al nucleo lirico-autobiografico si unisce così quello epico-lirico di un Cristo in rivolta, rifiuto di un mondo “medio” cristallizzato in una legge iniqua. Un Cristo frenetico, in continuo movimento nel deserto, un Cristo rivoluzionario, “venuto a dividere, a portare la spada non la pace”.

Durante il suo viaggio nei luoghi della Tuscia il regista rimane folgorato dalla vista e dalla bellezza della Torre di Chia.

Si batterà a lungo prima di poterla acquistare e finalmente nel 1970 ne diviene proprietario.

Il Pasolini antiprogressista che rimpiange l’Italia agricola della “gente povera e vera che lotta per scacciare un padrone senza diventare quel padrone”, il Pasolini corsaro, sempre pronto a scandalizzare con la sua logica, sempre più isolato, ma mai rassegnato al silenzio troverà la sua oasi di pace nell’amata Torre di Chia.

Chia, con la sua Torre rappresentano il suo locus amoenus, l’ultima ancora di salvezza, il suo buen retiro, l’altra vita.

E’ nella Torre di Chia che l’uomo e l’artista ritrovano la pace, in quel luogo di luce, in quell’ eremo, in quel “posto eccezionalmente bello” in cui è facile immaginarlo seduto sulla sua poltrona, con la testa china sui libri, davanti alla vetrata con affaccio sulla verde vallata, o intento a disegnare o a scrivere di musica.

E’ lì, in questo luogo magico, che l’intellettuale che scuote le coscienze, la voce contro che arriva dritta al cuore, l’uomo libero che sfida la morte ogni sera, estrae la sua linfa vitale.

Là voleva essere sepolto ed esattamente nella Torre di Chia il famoso fotografo Pedriali scatta le ultime foto di Pasolini nudo, quasi a carpirne l’anima, di fronte alle vetrate della sua stanza da letto, mentre fuori è notte, pochi giorni prima di venire ucciso. Foto che Pasolini, secondo quanto racconta  Pedriali, avrebbe voluto inserire nel suo romanzo-allegoria Petrolio.

Situata a nord dei Monti Cimini, lungo la strada che da Viterbo conduce a Orte, La Torre di Chia fu la location di alcune sequenze del Decameron e de I Racconti di Canterbury, immersa in una natura incontaminata simbolo di un passato lontano in cui i sentimenti erano autentici e puri.

L’ultimo Pasolini, il poeta vate chiuso nella sua Torre d’avorio ad analizzare il mondo, trova la sua Torre a Chia in provincia di Viterbo.

Lì si ritira per riscoprire le sue radici, perché in nessun luogo riusciva “a lavorare così’ bene come in quel posto di querce così perfettamente arcaico”, per immergersi in un mondo lontano dalla Roma del Palazzo del potere, in cui la ragione moriva, in cui come egli stesso ebbe a dire “non si sapeva neanche più cosa fosse reale”.

La Tuscia e in particolare Tuscania, diviene nel film Uccellacci e Uccellini di Pasolini Assisi, luogo nel quale Fra’ Ciccillo e Fra’ Ninetto sono chiamati ad evangelizzare gli uccelli, in cui la Tuscia è resa quasi come la periferia romana.

Uccellacci e Uccellini, ultimo film appartenente alla prima fase del cinema pasoliniano, è l’opera che più si apre alla storia: l’ideologia marxista irrompe sullo schermo pasoliniano con le sue contraddizioni (“è la crisi delle grandi ideologie, delle grandi speranze”, dice nel film il corvo) che esploderanno successivamente, quando l’ideologia marxista sarà direttamente posta a confronto con la realtà circostante, vale a dire con l’universo del capitalismo avanzato.

Sono gli anni in cui Pasolini scrive Alì dagli occhi azzurri che segna una insuperata fase di crisi.

La volontà di vivere nel mondo e di interpretarlo sembra esserne impossibilitata a causa di una realtà a lui avversa.

Il film risulta una favola moderna, in cui Totò e Ninetto Davoli rappresentano il popolo che subisce l’ideologia, il corvo rappresenta l’intellettuale che non riesce a comunicare con il popolo.

La parola di Dio non sembra bastare a far cessare le violenze e a fare pacificare marxisti e cristiani desiderosi entrambi di pace, incapaci però ad andare d’accordo.

Film politico che trascina i due protagonisti fino al funerale di Togliatti funerale che sancisce la fine del comunismo.

L’amore e la rinascita della vita Pasolini la esprima con la figura della prostituta con la quale si relazionano i due protagonisti e con il fagocitare il corvo da parte di Totò e Ninetto, che evidenzia l’aver fatto proprio, l’aver assorbito l’ideale marxista.

Fine anche di una corrente cinematografica: il neorealismo e soprattutto presa di coscienza di una fine.

Anche la scelta di Totò non è casuale “riunisce in sé, in maniera assolutamente armoniosa e indistinguibile, i due momenti tipici dei personaggi delle favole: il clownesco e l’immensamente umano, umano come certe favole della nonna” come ebbe a dire lo stesso Pasolini.

Dall’altra parte c’è la semplicità estrema di Ninetto Davoli ed insieme rappresentano un miscuglio di banalità e magia.

Nel film Totò e Ninetto attraversano lo spazio e il tempo non solo cinematografici ma anche reali, attraversano il tempo della storia italiana semplicemente passeggiando. Ogni spazio sembra essere definito sottoproletario per questo film complesso, poetico ed estremamente importante all’interno della produzione filmica pasoliniana che aprirà la strada alla seconda fase dell’attività filmica in cui il cui il regista si servirà del mito ricorrendo alla forma astratta dell’apologo morale.

In ultimo, ma non per ordine di importanza, come non ricordare il documentario prodotto da Pasolini nella Tuscia e per la Tuscia dal titolo “ La forma della città”, in cui il regista, rivolgendosi a Ninetto Davoli, con la telecamera in spalla,  disquisisce sulla forma di Orte apparentemente perfetta, intatta nella sua bellezza.

Da una prima inquadratura il borgo è compatto, se il regista allarga il campo appare un degrado, qualcosa che deforma la bellezza, la casa sulla sinistra risulta posizionata senza una sua logica, senza nessun tipo di riferimento, a destra un gruppo si case popolari, elementi tutti che turbano il regista e fanno affiorare la sua sensibilità artistica, il suo amore per l’arte, per il paesaggio e soprattutto la sua umanità.

Egli subisce una percezione di aggressione alla natura, le sovrastrutture vengono considerate elementi dannosi che imprigionano la vita. Affiora con prepotenza la poetica del fanciullino di Giovanni Pascoli spesso presente nell’opera poetica di Pasolini.

Rivolgendosi poi ad alcuni abitanti di Orte per chieder loro cosa ne pensassero della forma della città e ricevendo risposte aleatorie, il regista riesce ad evidenziare il rischio di perdere la memoria.

Emerge il Pasolini paesaggista, che rimarca il principio dell’evoluzione della natura e dell’uomo, di un mondo lontano, fatto di antiche tradizioni contadine, il Pasolini feroce critico del consumismo che distrugge il presente ed erode il passato, cancellandolo con esso i valori veri.

Critico verso il futuro inteso come sviluppo, responsabile di aver reso l’uomo un mero consumatore, con il suo documentario “La forma della città” riesce a creare momenti di riflessione, suscitare importanti dibattiti.

La sua è una critica feroce alle leggi urbanistiche e giunge alla conclusione dell’impossibilità di contrastare la logica del consumismo, privo di rispetto per la sacralità della terra e delle architetture legate al metro della natura tipico delle culture contadine.

Pasolini ricorda che il senso della comunità è svanito, mentre in un passato non molto lontano si costruiva rispettando la “socialità” di un territorio ed era viva la consapevolezza di difenderlo.

E’ la sua una sensibilità ferita che sottolinea la fatica di battersi per la tutela di una strada sterrata, o di  un sentiero che serbano lo stesso valore di un bellissimo monumento o di un’opera d’arte.

Il sapere, la formazione intellettuale di Pasolini affondano le proprie radici nella memoria, nella  tradizione culturale arcaica e sembrano far proprie le idee di Le Corbusier che suggerisce che “bisogna agire nella modestia…l’unica cosa possibile è la continuità, la perseveranza, l’unica cosa trasmissibile è il pensiero, che può diventare una vittoria sul destino al di là della morte”.

 

Rosella Lisoni

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