Otto settembre 1943, i volti della Tuscia nella Resistenza

di Silvio Antonini

Quadro commemorativo della Banda partigiana Ferdinando Biferali

È la mattina del 9 settembre 1943, la III Divisione tedesca Panzergranadieren sta percorrendo la Cassia in direzione di Roma, quando, all’altezza di Monterosi, trova il posto di blocco presidiato da un plotone di guastatori dell’84º Battaglione misto del Genio, Divisione corazzata Ariete. Al comando c’è il Sottotenente del Genio militare Ettore Rosso, originario del Piacentino, che, per impedire la forzatura, fa brillare il sistema di mine preposto, uccidendo tredici motociclisti della Wermacht e cadendo anch’egli nell’azione, circostanza che avrebbe scongiurato pretesti per rappresaglie.

Rosso, insignito della Medaglia d’oro al valor militare alla memoria, aveva quindi compiuto per l’Alto Lazio la prima azione militare di quella che sarebbe stata poi chiamata Resistenza. Azione in linea con quanto stava accadendo nel resto del Paese e in altre aree, specialmente i Balcani, dove il Regio esercito si trovava in qualità di occupante per il fronte nazifascista. Il giorno prima, l’8, alle ore 19.42, dai microfoni radio dell’Eiar, in via Asiago, 10, lo stesso Capo del Governo italiano, Pietro Badoglio, aveva reso pubblico il trattato di Armistizio, firmato cinque giorni prima a Cassibile, Siracusa. I termini del comunicato sono notoriamente ambigui: si dichiara accolta la resa proposta al Generale Eisenhower, si ordina perciò di cessare le ostilità contro gli eserciti alleati e di reagire “ad eventuali attacchi da qualsiasi altra provenienza”, senza specificare di quale provenienza potesse trattarsi. La risposta nazista è rapida ed inequivocabile: l’Italia è ormai un paese ostile per cui si procede all’immediata occupazione. Anche i Savoia intuiscono la situazione e, infatti, si dànno subito alla fuga verso Brindisi, lasciando l’Esercito e la popolazione tutta senza ordini precisi.

1. EttoreRossoconSorella
Ettore Rosso con la sorella

Per l’Italia la guerra è ormai persa; inizia nei fatti la cobelligeranza al fianco degli Alleati, grazie all’impegno dei soldati che si rifiutano di collaborare con i nazisti, di arrendersi e di consegnare le armi. Un fenomeno diffuso di cui Cefalonia è l’episodio più celebre e paradigmatico. Nei territori occupati, i militari italiani prendono anche parte alle lotte di liberazione già organizzate ed attive sul posto, riscattando così il nome dell’Italia. Per oltre 600mila soldati ha inoltre inizio il dramma della deportazione nei campi di concentramento nazisti. Hitler si rifiuta di riconoscere ai “traditori” italiani lo status di prigionieri di guerra, soggetti cioè a tutte le convenzioni sui diritti in proposito, definendoli Internati militari italiani (Imi), per essere ridotti in schiavitù, nello spregio dei più elementari princìpi di umanità.

In Italia, intanto, si organizzano le formazioni partigiane, spesso su iniziativa di personalità dell’Antifascismo, con la partecipazione di militari sbandati, renitenti o alleati fuggiti dai campi di prigionia, sfollati: uomini e donne che, a vario titolo e ruolo, con diverse visioni politiche e sensibilità, nelle campagne e nelle aree urbane si impegnano nella guerriglia contro gli occupanti. E mentre il Fronte sale man mano da Sud a Nord ed il Paese è stretto nella morsa tra i bombardamenti alleati e le atrocità dell’occupante nazista, coadiuvato dal collaborazionismo fascista, si inizia a pensare all’Italia che sarebbe venuta dopo il Conflitto. Nelle baracche dei campi di concentramento, in Patria e all’estero, tra i suoni di lingue straniere, sulle montagne, nelle celle delle prigioni o al chiuso nelle stanze di città stremate, si discute e si buttano giù quelle idee per la rinascita civile, in buona parte poi confluite nel compromesso della Costituzione della Repubblica italiana.

L’Otto settembre di ottant’anni fa, quindi, lo spartiacque: una storia collettiva nazionale che si fonda su una miriade di scelte individuali. A tal proposito, tre significative testimonianze per la ricorrenza, in relazione alla Provincia di Viterbo, elencate secondo le date di rilascio o pubblicazione. Trascrizioni integrali dei passaggi sull’argomento in oggetto, con l’aggiunta, a scopo didascalico, di esplicazioni in corsivo. 

 

LUIGI TAVANI

(Viterbo, 12 luglio 1909 – 21 maggio 1972)

Scalpellino, partecipante poco più che bambino alle agitazioni sociali del Primo dopoguerra, membro della Squadra giovanile degli Arditi del popolo, contribuisce alle mobilitazioni contro le incursioni fasciste del 1921-22. Suo fratello, Antonio, scalpellino ed Ardito del popolo anch’egli, è assassinato da elementi in trattativa per passare al Fascio, la sera del 9 luglio 1922. Luigi Tavani è stato tra i fondatori della Sezione di Viterbo del Partito comunista d’Italia. Antifascista durante il Ventennio, nel 1940 aveva aperto una trattoria in via della Volta buia. Il 25 Luglio 1943 lo aveva sorpreso soldato nell’avamposto di Bovalino Marino, da cui era fuggito per portarsi a casa. 

«Sopraggiunse l’8 Settembre, così il nostro lavoro dovette cambiare fisionomia, diventando perciò banda partigiana comunista. Come si costituì la banda? Ricordo che venne da me il compagno Annibale Galeotti; senza sottintesi mi disse che d’accordo con il compagno Biferali Ferdinando di Civitavecchia, dovevamo ricostruire il Pci (sembra una confusione che in effetti non lo è).  Così incominciammo ognuno ad interpellare altri compagni di fiducia fino ad avere il sufficiente per poi indire una riunione per costituire i gruppi con il capogruppo. Il lavoro in gruppi era necessario per snellire l’organizzazione e, in caso si fosse scoperti, fare in modo di non far conoscere tutti gli organizzati. Ora, a distanza di 28-29 anni, sembra di ricordare certe cose come uno scherzo, o meglio come un sogno, quello che è stato fatto sostanzialmente contro l’occupazione nazifascista a favore del popolo oppresso, contro la guerra e per la libertà. Io penso che anche se si è fatto poco, quel poco che si è fatto era sufficiente per essere messi al muro, se scoperti, noi e le nostre famiglie, e fucilati. Come era composta la banda? In un primo momento la formazione era alquanto confusa; Biferali era l’addetto politico ed io il militare; tutti si lavorava alla giornata, in base a criteri propri, senza un piano bene elaborato e una inquadratura organizzativa politico-militare. Avevamo un punto di riferimento nella mia trattoria. Avevamo ripreso i contatti con il Pci e da questo ci pervenivano le direttive che si trasmettevano ad ogni organizzato. Intanto la guerra si era fermata nel Cassinate, le truppe alleate non forzavano la mano nel combattimento e lasciavano che l’Italia venisse distrutta dal Cassinate alle Alpi, sia per i bombardamenti, che gli Alleati si divertivano a fare per demoralizzare la popolazione, sia dalle truppe di occupazione nazifasciste, perché intanto si era costituita anche la Repubblica di Salò. Quello che noi speravamo fosse una cosa sbrigativa, divenne invece lunga e più seria di quanto si immaginasse. Tanto seria che la Direzione del Pci, sapendo che Viterbo è l’anello di congiunzione tra il Centro- sud ed il Nord, inviò da Roma un commissario politico nella persona del prof. Leporatti Mario (che poi è passato alla socialdemocrazia) e l’addetto militare compagno Mangiavacchi Gino» (Luigi Tavani in appendice a: Giacomo Zolla, 30 anni di storia e di lotte dei comunisti di Soriano nel Cimino, 1936-1966, Soriano nel Cimino, La Commerciale, 1972, pp. 239-240).

Luigi Tavani, per un tempo Commissario militare della Banda Biferali, dopo la Liberazione, divenuto commerciante ortofrutticolo, si era impegnato nella Ricostruzione con il Pci, per cui sarebbe stato eletto Consigliere provinciale, e la Cgil, per cui sarebbe stato dirigente Federbraccianti. Nel 1968 avrebbe rilanciato il Comitato provinciale Anpi. Morto d’infarto mentre stava facendo dei lavori nel suo terreno in località Montigliano.  

Luigi Tavani da giovane
Luigi Tavani da giovane

 

GIACOMO ZOLLA

(Soriano nel Cimino, 5 settembre 1924 – 24 ottobre 2010)

Figlio d’un artigiano di idee socialiste, Giacomo Edmondo Zolla si era avvicinato all’Antifascismo negli anni Trenta, venendone a conoscenza da apprendista presso l’officina meccanica di Settimio David, figura storica del locale social – comunismo. Iniziava subito a cospirare assieme ad altri giovani del posto. Il 25 Luglio 1943 aveva preso parte ai festeggiamenti per la deposizione di Mussolini. Arruolato, l’8 Settembre è a Cuneo.   

 

«Quann’è stato l’8 Settembre stavo a i’ Cinema. Tutti quanti al Cinema, pieno de militari, lì a Cuneo… ’Na bella città. Allora al buio, vinnero due soldati, entrarono: ‘Ragazzi… – se sendiva i’ fruscio…- ragazzi, c’è stato l’armistizio’. Allora i’ compagno mio, che era toscano: “Nun da’ retta a quelli: fanno pe’ fregacce i’ posto…”.

Dopo ’n poco se ’ncominciavano a senti’ le trombe che sonavano la ritirata: Pe-pe, pe-pe, pe-pe. Le trombe militari, perché c’erano diverse caserme a Cuneo… Mentre stavamo lì lungo i’ corso, di fatto nun se sapeva niente: i borghesi domandavano a noi, noi domandavamo i borghesi che cosa era successo. Sicché se formò ’na specie di corteo e io me vinni a trova’ ’n prima fila….» (testimonianza rilasciata nel settembre 2003).

 

Vani i tentativi di farsi passare come civile impugnando un mandolino trovato per caso. Zolla è caricato con gli altri commilitoni sui vagoni bestiame per essere deportato in Germania. Alla Stazione di Torino, non avendo mostrine da gettare alla Croce rossa, scrive un bigliettino, “Sono prigioniero dei tedeschi”, che viene fortunosamente recapitato ai genitori. Si butta dal treno in corsa, come avvenuto in altre tratte ferroviarie, assieme ad altri, rifugiandosi presso dei contadini del Piacentino, aiutati nei lavori di campagna. Da qui scrive ai genitori usando un nome femminile. Riuscito a tornare a Soriano, si adopera per la fondazione della locale Banda partigiana Domenico David – Calogero Diana. Arrestato come renitente alla leva, è rinchiuso nel Carcere di S. Maria in Gradi, a Viterbo, testimone degli orribili bombardamenti del 27 maggio 1944.

Con la Liberazione s’impegna anch’egli per la Ricostruzione nelle file del Pci, per cui è stato Consigliere comunale e provinciale. Zolla, tipografo di professione, si è seriamente cimentato negli studi storici e nella raccolta di testimonianze, compresa la propria, per cui i suoi lavori sono ancora oggi tra le principali fonti per la ricostruzione storiografica dell’Antifascismo, della Seconda guerra mondiale, della Resistenza e del Secondo dopoguerra nella Tuscia.  

Giacomo Zolla
Giacomo Zolla, foto di Daniele Vita
5. BigliettoCriGiacomoZolla
Bigliettino di Giacomo Zolla recapitato ai familiari dalla Croce rossa italiana

 

NELLO MARIGNOLI

(Viterbo, 19 aprile 1923 – 23 novembre 2014)

Figlio di un benzinaio – gommista di tradizioni socialiste, Nello Marignoli è arruolato il 26 gennaio 1942 nella Regia marina militare italiana, come radiotelegrafista. Nel maggio dell’anno successivo è inviato sul Fronte greco – albanese, a bordo del dragamine Rovigno, ove ha compiuto cinque missioni. L’Armistizio lo sorprende mentre il Rovigno si trova al porto di Valona.

«Io come radiotelegrafista, l’Armistizio… Io e il collega mio, eravamo di guardia insieme. A un bel momento, su un’onda media, riuscimmo a capta’ una trasmittente potentissima, a onde medie, onde lunghe, onde corte, su tutte le onde – do’ passavi…-, in chiaro, in italiano, dove dicevano che l’Italia aveva firmato l’Armistizio, ecc., ecc. Figurati.

E io prendo ‘sto foglio, lo porto su dal Comandante. C’era il Comandante in seconda. Quando il Comandante in seconda ha letto che l’Italia aveva chiesto e gli Alleati l’avevano accettato, diciamo, l’Armistizio, questo qui cambiò de colore, s’imbestialì come ’na bestia e poi, co’ la pistola in pugno, me minacciò, che se io divulgavo la notizia… Era tutta propaganda nemica.

E ’li tedeschi, però, già s’erano piazzati là a terra. Lì sul porto, sulla baia, c’era come una garitta grossa, che c’era la Finanza; io me ricordo. E ’li tedeschi già c’avevano piazzato un cannone anticarro. L’avevano nascosto dietro: se vedeva e ’n se vedeva. L’avevano puntato esattamente dritto a noi.

Il Comandante però l’aveva visti. C’ha chiamato, dice: “Il piano mio sarebbe questo: segamo le catene, viene l’alta marea, la nave si sposta, loro di notte là non ci vedono, non se ne accorgono che noi s’allontanamo da la riva e non siamo più sottotiro. A quel punto, via: rotta verso Brindisi”. Era un piano spettacoloso.

Il Comandante in seconda sa’ che ha fatto? È andato a terra e ha avvertito ’li tedeschi che il Rovigno, ‘sto dragamine, era in procinto de scappa’.

’Li tedeschi che cosa hanno fatto? Con una lancia motore se so’ staccati da terra, so’ venuti sottobordo. C’era un ufficiale, un sottufficiale e due di loro, armati fino a ’li denti; so’ saliti co’ le minacce, senza saluta’ ’l Tricolore – nu’ je fregava ‘n cazzo – . Lì hanno ordinato al Comandate de fa’ ’n’ assemblea: tutto l’equipaggio a poppa. E ’sto tedesco… Ma chi lo capiva poi ’l tedesco? Manco ’na parola. Però c’era un interprete – diceva che faceva l’interprete – c’ha tradotto tutto quello che ’sto tedesco c’ha detto: che noi dovevamo seguire la guerra co’ ’li tedeschi pe’ la grandezza del Terzo grande reich – capito? -, come camerati… Levavano ’l Tricolore, mettevano la Croce uncinata: tutte ’ste storie.. E poi disse: chi accettava alzi la mano. Il tedesco quanno vide tutto l’equipaggio sull’attenti, calò il Tricolore, alzò la Croce uncinata. Noi, sull’attenti, piangevamo, co’ le lacrime ce se lavavamo ’l viso… Vede’ così ’l Tricolore…

Allora ’l Comandante disse: “Da questo momento siete sollevati dal vostro giuramento. Chi vo’ accetta’ alzi la mano, esce da le righe e va coi tedeschi, altrimenti…”. Nessuno ha alzato la mano. Loro, quanno hanno visto ’sto fatto, so’ diventati ancora più minacciosi. C’hanno dato venti minuti de tempo pe’ sbarca’, pe’ le nostre cose personali, che poi ce l’hanno levate tutte. E così è stato…» (testimonianza rilasciata nel luglio 2006).

 

Internato militare in Bosnia, in campi di concentramento ove svolge la professione di vulcanizzatore, gommista, grazie ad uno stratagemma dell’Esercito popolare di liberazione jugoslavo (Eplj), Marignoli riesce a fuggire assieme altri commilitoni. Si arruola quindi, come Combattente partigiano, nella X Brigata Herzegovaska dell’Eplj, dove è radiotelegrafista. Prende parte alla Lotta di liberazione dei territori jugoslavi sino a Trieste, per fare rocambolescamente ritorno a casa. Qui riprenderà la sua professione di gommista sino al pensionamento. Con la sua morte sarebbe venuto a mancare l’ultimo Combattente partigiano della Città di Viterbo.

La sua testimonianza, ripresa da monografie, documentari audiovisivi e spettacoli teatrali, è, tra quelle raccolte nel Viterbese, sicuramente una delle più intense, coinvolgenti, nonché incisive, per l’epoca resistenziale.

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Nello Marignoli marinaio
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Nello Marignoli, foto di Daniele Vita
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