[Anticipiamo l’intervento scritto da Mauro Galeotti come contributo all’incontro in memoria di Alfio Pannega che si terra’ nel pomeriggio dell’8 maggio 2025 con inizio alle 15,30 presso lo “Spazio giovani” in piazzale Porsenna nel quartiere di Santa Barbara a Viterbo per iniziativa di “Viterbo con amore”]
Erano gli anni che vanno dal 1965, quando avevo 14 anni, alla fine degli anni ’70 il periodo della mia frequentazione con mio padre Vinicio, nella Chiesa di santa Croce sulla Valle di Faul, sconsacrata dagli inizi del 1900 quando fu adibita a magazzino per la conservazione della canapa e poi a deposito e smistamento della carta da macero.
Era un grande ambiente dove il titolare Ferdinando Puccioni, detto Fiore, amico di mio padre e poi anche mio, raccoglieva carta di ogni genere, giornali, riviste, libri, cartoni, scatole, ma quello che animava la ricerca, di mio padre e mia, era quando la Croce Rossa Italiana portava interi archivi di enti pubblici o di privati o anche quando i Comuni, per avere più spazio, portavano parte dei loro archivi considerati poco importanti.
Mi ricordo che Fiore pagava la carta 10 lire al chilo ed era una miniera di documenti da salvare dal macero.
Era una corsa contro il tempo, contro le inesorabili presse, sempre in azione, tanto che mio padre ci trascorreva ore ed ore, a cavallo di mucchi di carta o in piedi davanti a una catasta di faldoni, e quando veniva a casa mangiava velocemente qualche boccone, per poi ritornare a “scavare” tra la carta divisa in vari mucchi, che spesso superavano l’altezza di quattro metri.
Era la corsa contro le presse, che i dipendenti di Fiore azionavano creando balle di carta legate con il filo di ferro e quello che era pressato era perduto.
In cambio Fiore chiedeva a mio padre di dividere la carta a colori da quella bianca, perche’ quest’ultima veniva pagata maggiormente dalla cartiera e mio padre lavorava come fosse un dipendente di quella ditta e io lo aiutavo.
Era un via vai di persone, umili, mal vestite, con nessuna pretesa, che non avevano altro lavoro se non quello di recuperare cartoni e carta dai negozianti, dai privati, dalle cantine, dai magazzini per caricarli su un carrettino, per venderli a Fiore.
Se stavano economicamente un po’ meglio possedevano un Apetto o un furgoncino col piccolo cassone.
Tra questi, era anche Alfio Pannega, amico di mio padre, buono, rispettoso, infaticabile che aveva un ottimo rapporto con Fiore e con mio padre e con i lavoranti del macero.
Alfio aveva superato i 30 anni ed era nel pieno delle sue forze, carreggiava col suo carrettino più volte i cartoni e la carta da Viterbo al macero, non si fermava mai perché per racimolare la giornata non poteva permettersi di fermarsi mai e poi i negozianti e gli artigiani viterbesi con lui erano sempre benevoli e gli davano i cartoni, la carta, le scatole e gli imballi per aiutarlo a vivere.
Non pochi donavano ad Alfio anche qualche mancia perché lui era un buono, una brava persona, un uomo che mestamente dimostrava la sua dignità portando rispetto a tutti.
Anche Fiore non era stretto di manica e gli veniva incontro quando Alfio arrivava col carrettino e pesava ciò che portava, infatti gli pagava più del dovuto, perché Alfio lo meritava.
Mio padre raccoglieva francobolli, tanto che quando apriva qualche pacco con buste affrancate le metteva da parte e le portava a casa, prendeva anche documenti che riguardavano Viterbo.
Ricordo che anche Alfio collaborava alla ricerca di francobolli per darli a mio padre o a me, e quando li trovava li staccava dalla busta e li metteva in tasca, senza pensare che non dovevano essere piegati, o spiegazzati perché potessero essere collezionati.
Metteva la mano in tasca e con soddisfazione me li donava ed io o mio padre, anche se quei francobolli non erano collezionabili, lo ricompensavamo anche se lui non voleva, era un gesto di amicizia che ci univa ad un lavoratore laborioso.
Un triste giorno si presentò al macero con un piede fasciato alla meno peggio, gli chiesi cosa si fosse fatto e lui, come se nulla gli fosse accaduto, mi disse che aveva messo il piede su un culaccio di bottiglia di vetro, volevo portarlo all’ospedale, ma non volle perché il suo lavoro non poteva essere interrotto, a casa aveva mamma Giovanna che l’aspettava per mangiare insieme.
Era il periodo che si rifugiavano in una grotta fuori Porta Faul.
Era così innamorato della sua mamma che lo vidi un giorno, dopo che Giovanna salì in cielo nel 1974, con in mano una rosa e gli chiesi dove andasse, mi rispose che andava al cimitero a portare alla mamma quella rosa che gli aveva regalato un fioraio.
Commossi lui ed io ci salutammo, perché una mamma è viva anche quando non c’è più.
L’ho visto più volte nella casetta addossata a Porta Faul, quella che un tempo era la casa del portinaio, il quale aveva il dovere di controllare le aperture e le chiusure della porta stessa, l’ho visto attorniato dai suoi fedeli cani che tanto lo hanno amato come lui ha amato loro.
Quell’uomo ce l’ho nel cuore, perché un amico genuino come lui non lo incontrerò mai più.
Viterbo 28 aprile 2025


























